Quando il Disturbo Post Traumatico da Stress diventa contagioso

I terapisti e tutti coloro che aiutano le vittime di traumi possono a loro volta subìre il trauma.

 

 

Michael non era a New York l’11 settembre 2001. Ma per anni, davanti ad un ascensore aperto nel suo luogo di lavoro, si è immaginato gente in fiamme correre fuori, le loro urla riempire la hall. Quando chiudeva gli occhi, vedeva a volte arti intrappolate in macerie, staccate dai loro corpi. Egli è stato afflitto da immagini di momenti di violenza e distruzione pur non avendo assistito direttamente ad esse. Nelle notti insonni ha vagato per le strade del suo quartiere, cercando di esorcizzare i demoni di altre persone.

Michael, che ha chiesto che il suo cognome non fosse divulgato per questioni di privacy, è uno psicologo clinico che lavora a Manhattan. Negli anni dopo gli attacchi al World Trade Center, ha curato centinaia di pazienti con disturbo post traumatico da stress acuto. Ma ci ha messo un po’ a notare che, mentre la salute mentale dei suoi pazienti in gran parte migliorava ad ogni seduta di terapia, la sua si stava deteriorando. Nel 2004 era nervoso, depresso e non riusciva a dormire di notte, ha cominciato a soffrire di attacchi di panico per la prima volta nella sua vita. Sempre più spesso, ha dovuto ritirarsi da eventi sociali ed evitare spazi pubblici. Ha chiesto ad un collega di prescrivergli sonniferi e antidepressivi.

I nostri soccorritori in seconda linea lavorano con la tragedia umanitaria, essi sono psicologi, assistenti sociali, avvocati e giornalisti e sono esposti ogni giorno al disagio altrui, e per questo si trovano nelle condizioni di sviluppare stress traumatico simile al PTSD dei loro clienti, pazienti, dimostrando in questo modo che le immagini di violenza possono ritorcersi contro una mente traumatizzata. Negli Stati Uniti circa il 30/40 per cento dei clienti dei centri di salute mentale evidenziano sintomi di stress post-traumatico. Secondo una stima almeno la metà degli psicoterapeuti che trattano questi pazienti potrebbero avere sintomi del trauma “secondario” o acquisito.

Attualmente i migliori trattamenti per il trauma richiedono di condividere la storia di quello che è successo. Parlare è terapia, ma quando le cose che condividiamo sono terrificanti, i nostri ascoltatori possono essere modificati in peggio. In questo modo, il trauma individuale può trasformarsi in qualcosa di collettivo.

Michael, che era un percussionista jazz, ha l’aspetto di un un ex batterista e i capelli morbidi bianchi di un medico televisivo. Egli piega la testa da un lato quando pensa. Non ha potuto vedere nessun cliente immediatamente dopo a quell’11 settembre perché egli non era sul  lungomare di New Jersey, in un ospedale di fortuna il giorno stesso dell’attacco. Era impossibile raggiungere i pazienti quel giorno, ha potuto solo guardare dalla TV mentre Manhattan veniva distrutta.

Parlare è terapia, ma quando le cose che condividiamo sono terrificanti, i nostri ascoltatori possono essere modificati in peggio.

La tregua non sarebbe durata. Nei giorni seguenti gli attacchi, Michael ha iniziato a vedere da otto a dieci pazienti al giorno per circa un’ora a seduta, cinque giorni alla settimana. Tutti avevano disturbo acuto da stress, l’etichetta assegnata allo shock emotivo estremo che segue un evento tragico. Se il disturbo acuto da stress perdura, diventa PTSD. Alcuni dei suoi pazienti erano fuggiti dagli edifici che crollavano, o erano stati i primi ad essersi salvati tra le macerie dopo erano caduti. Molti erano stati afflitti da immagini che non potevano dimenticare, e dal senso di colpa del sopravvissuto.

 

 

Caratterizzato dalla variabilità delle emozioni, ipervigilanza, paura diffusa, e ansia, il trauma è una risposta di adattamento il cui scopo è semplicemente quello di mantenere una persona lontana da situazioni pericolose nello stesso modo in futuro. Ma nel lungo periodo può lasciare la vittima emotivamente sconvolta, sempre attenta a nuove minacce illusorie.

Il PTSD che segue è un disturbo di associazione. Suoni, odori, immagini e pensieri dell’evento traumatico saranno in grado di suscitare una risposta emotiva di lotta o fuga anche dopo che il trauma è passato, come accade per il veterano di guerra che sobbalza quando una macchina si gli va contro.

I migliori trattamenti per il PTSD si concentrano su queste associazioni. I pazienti traumatizzati sono incoraggiati a confrontarsi con le loro associazioni, spesso volutamente vengono indotti a rivivere l’evento traumatico, al fine di sperimentare le loro reazioni emotive e fisiche completamente. Poiché i pazienti raccontano le loro storie più volte durante la seduta, settimana dopo settimana, le associazioni della manifestazione possono perdere la loro forza. Idealmente, le loro reazioni si indeboliranno durante ogni racconto.

La Terapia del PTSD può essere un processo di trasformazione per chi ne è affetto, ma il suo effetto sull’ascoltatore può essere più complicato. “I fornitori di servizi spesso devono condividere il carico emotivo del trauma”, scrive Brian Bride, un professore di psicologia sociale presso la Georgia State University; “essi testimoniano eventi passati dannosi e crudeli, e riconoscono l’esistenza di eventi terribili e traumatici nel mondo, ascoltano storie di sofferenza, che in altre parole, sono in grado di generare ulteriori sofferenze”.

Durante le lezioni presso psichiatrici nei più grandi centri medici, Michael chiede spesso al suo pubblico di medici e studenti di medicina di immaginare un limone. “Tenetelo in mente” dice, “Guardate come è giallo. Sentite il profumo di agrumi. Ora tagliatene una fetta  con un coltello e mordetelo. Gustate il sapore acido forte”. Quando chiede al pubblico di alzare la mano se qualcuno sta sbavando, quasi tutti la alzano. Il punto dell’esperimento è semplice: pensare e immaginare produce una relazione fisica e questa è dimostrabile. Quando un terapeuta di un paziente con PTSD ascolta una storia di violenza, l’immaginazione empatica può inavvertitamente innescare una reazione fisiologica simile a quella che la vittima ha vissuto: un cuore in corsa, la stretta di mano, la nausea, e di altri elementi di lotta o fuga come risposte.

Uno dei suoi pazienti, Michael ha ricordato, era un operaio edile cui è stato affidato il compito di spazzare via le macerie dopo il crollo delle torri. Un giorno “è scoppiato in lacrime nel mio ufficio”, ha detto Michael, perché aveva trovato la mano di una donna che teneva la mano di un bambino”. Solo due  mani insieme. Michael è rimasto in silenzio. “Sai, in questo momento, mi sento male solo raccontando la storia”.

Udire storie di atrocità può anche causare cambiamenti a lungo termine. Laurie Pearlman, una delle prime psicologhe che hanno identificato il fenomeno del trauma secondario, spiega questo effetto come “modifiche allo schema cognitivo”. Essenzialmente, queste storie possono cambiare il modo in cui l’ascoltatore vede il mondo, costringendolo a riconoscere che i suoi cari possono non essere al sicuro come aveva pensato, e di affrontare la propria impotenza nel prevenire future tragedie.

Questo cambiamento di pensiero può essere graduale, e può essere un processo quasi inconscio. Quando Peralman iniziò a fare consulenza alle vittime di abusi nel 1980, “sono rimasta colpita dal lavoro sui traumi nei modi che non mi aspettavo o non capivo”, mi racconta. Ha iniziato a visualizzare come le impostazioni precedentemente positive venissero messe in pericolo, e ha trovato difficile mantenere il suo atteggiamento normalmente ottimista. Oggi, lei descrive quello che le è successo come una “visione del mondo sconvolta” e come una “interrotta spiritualità”. Questi sintomi di esposizione a storie di traumi, secondo lei, sono quelli che possono danneggiare gli operatori sanitari in maniera prioritaria.

Gestire una concezione del mondo alterato e in definitiva distruttiva, Pearlman scrive “dipende, in larga parte dalla misura in cui il terapeuta è in grado di impegnarsi in un processo parallelo a quello del cliente-vittima: il processo di integrazione consiste nel trasformare queste esperienze di orrore o violazione”. Ella raccomanda che tutti i terapeuti dei trauma siano sottoposti a terapia a loro volta.

Il trauma dopo la tragedia non è una novità: La prova del PTSD nei soldati e nei comandanti è presente in antichi testi greci e romani. Le pagine di molte tragedie greche, come l’Ajax di Sofocle ed Eracle di Euripide, sono all’ordine del giorno con i veterani impazziti dalla guerra. Nell’esercito romano vi sono stati tentativi di suicidio, stranamente punibili con la morte, a meno che il soldato non fosse stato trovato a soffrire di vergogna, tristezza, o “stanchezza della vita”.

L’idea che il trauma possa essere comunicabile è molto più recente. Gli psicoanalisti sin da Freud hanno notato che la terapia può portare al “controtransfert”, in cui un paziente  diventa oggetto delle proprie nevrosi, desideri o conflitti irrisolti di un analista. Ma sino alla guerra del Vietnam non fu osservato un pericolo maggiore: che i pazienti potevano, inconsapevolmente, impiantare immagini di violenza duratura nella mente di persone che non avevano sperimentato tale violenza.

 

“Quando il paziente riferisce atrocità, da dove deve cominciare il terapeuta?” si chiedeva Sarah Haley, una psichiatra della Veterans Administration, in un articolo in Archives of General Psychiatry nel 1974. Alla fine degli anni della guerra del Vietnam, Haley trattava i veterani con  malattie mentali derivati da eventi di violenza e la brutalità estrema, compresi i casi in cui essi stessi ne erano gli autori. Si registra la storia di un paziente, un Marine che aveva guidato la sua squadra nella distruzione di un villaggio con trappole esplosive che furono posizionate nella giungla circostante. “[Noi] facemmo esplodere quei figli di puttana via”, egli ha raccontato ad Haley. La storia, e altre vicende simili, l’ha lasciata “confusa e spaventata”. Come si fa a trattare tali pazienti, si è chiesta Haley? “Forse”, ha scritto, “dovremmo iniziare ricordando a noi stessi che le atrocità sono vecchie come l’uomo”.

Nel 1981 Yael Danieli, uno psicologo clinico con sede a Manhattan ed ex sergente delle Forze di Difesa israeliane, ha pubblicato una revisione delle reazioni emotive del terapeuta  che lavora con i sopravvissuti all’Olocausto dei loro figli. “I terapeuti” – lei ha scritto, spesso-  “si sono ritrovati a condividere gli incubi dei sopravvissuti che sono stati in cura”. In nove mesi di trattamento dei sopravvissuti, un terapeuta ha riferito di aver avuto solo due sogni che non erano legati a storie dei suoi clienti.

Un altro [terapeuta] quasi svenne quando un paziente gli raccontà di aver visto “i bambini aggrappati ai corpi dei genitori nelle fosse comuni”. Ancora un altro  [terapeuta ] ha confessato che la prima volta che vide un numero di identificazione tatuato sull’avambraccio di un cliente, ha dovuto “uscire per vomitare. ”

Danieli ha rilevato che i terapeuti, temendo le proprie reazioni rispetto ai  contenuti traumatici, temono di  incontrare i loro clienti della reversibilità e spesso hanno evitato di discutere con l’Olocausto. Molti timori sono espressi per la loro sanità mentale. “Ho paura di essere trascinato in un vortice di tale oscurità tanto che  io  non possa mai trovare chiarezza e non possa mai recuperare”, ha detto il  terapeuta Danieli. “Una volta che questa piccola scatola nera è aperta”, un altro ha detto, “è peggio del vaso di Pandora”.

Ora sappiamo che il trauma secondario è una conseguenza prevedibile del lavorare con le popolazioni traumatizzate. “Il Trauma Vicario è inevitabile per le persone che fanno questo tipo di lavoro”, afferma Jackie Burke, direttore clinico del Servizio su stupro e violenza domestica in Australia, un servizio di consulenza per le vittime di abusi sessuali e violenza in famiglia.

“C’è solo un predittore affidabile davvero se qualcuno avrà trauma vicario, e questo è il loro livello di esposizione”.

Ella crede che tutti i membri del suo staff di consulenza soffrano in qualche modo dalle narrazioni dei trauma dei loro clienti.

Una valutazione su operatori che lavoravano nelle comunità di servizi per la salute mentale negli Stati Uniti ha rilevato che quasi uno su cinque ha avuto sintomi di PTSD. Tassi simili di disagio sono stati trovati in operatori della salute mentale che hanno curato le vittime del 1995 dell’Oklahoma City e dei sopravvissuti dell’uragano Katrina. Una indagine su  100 terapisti di abusi sessuali ha rilevato che  quasi la metà ha avuto stress traumatico secondario.

“Quello che la ricerca evidenzia in questo momento è che c’è un solo predittore veramente affidabile sul fatto che  qualcuno potrà sviluppare un trauma vicario”, dice Burke. “E questo è il proprio livello di esposizione al trauma”. Poiché gli operatori sanitari sono esposti a contenuti traumatici durante il lavoro, “ho concettualizzato questo prima di tutto come un problema di salute e sicurezza dei lavoratori”. L’organizzazione di Burke impiega tutto il tempo per vigilare sul “trauma vicario”  che si sviluppa tra di consulente e il suo utente ogni settimana, monitorando i livelli dei sintomi secondari e, quando i sintomi compaiono gradualmente, per lo sviluppo di programmi di trattamento immediati.

Uno degli interventi più efficaci secondo Burke dice è il “lasciare il proprio lavoro al lavoro”.  “Se si capisce che l’unica cosa che predice un trauma è l’esposizione ai contenuti traumatici, allora l’unico modo per la risoluzione per ridurre il rischio è quello di ridurre l’esposizione” dice. Le organizzazioni possono fare questo riducendo il numero di pazienti traumatizzati che uno psicologo vede, per esempio, o applicando limiti di orari di ufficio. Ma lei ammette che, in molti casi, tra cui i propri luoghi di lavoro, tali misure non sono sempre perfettibili.  “Da noi non è stato possibile farlo. I nostri servizi on-line e di consulenza telefonica sono 24 su 24”.

Fonte: http://www.theatlantic.com/health/archive/2015/12/ptsd-secondary-trauma/420282/

 

Traduzione non professionale di Lorita Tinelli

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