Una giustizia a misura di bambino?

SEGNALAZIONEsegnalazione_mini

Buongiorno, sono una psicologa-psicoterapeuta che lavora nel pubblico in Lombardia come consulente nell’ambito della Tutela dei Minori, quindi in continuo contatto con Tribunali, Giudici onorari e togati ecc.

Ieri sera 21 maggio 2014 alle ore 23.00 circa ho visto il servizio mandato in onda su Italia 1  dalla trasmissione ” le Iene” dal titolo inquietante “Come funziona il traffico di bambini”.
L’argomento dell’inchiesta è certamente interessante e condivisibile ovvero l’incompatibilità tra la funzione di Giudice Onorario e di direttore di una comunità per minori/socio di cooperative che gestiscono comunità, ma è stato trattato con molta superficialità screditando l’intero sistema giustizia e le professionalità (quindi compresi i colleghi psicologi) dei Giudici Onorari.
L’argomento che è certamente da approfondire si basava su un report di una associazione “Finalmente liberi” che aveva portato dei dati di incompatibilità su circa 100 giudici onorari, tuttavia il titolo del servizio e i contenuti vertevano poi sull’argomento “allontanamenti dei minori dalla loro famiglia” sui quali si è banalizzato molto (citando come fonte dati di Regione Lombardia Famiglia e solidarietà sociale sui motivi degli allontanamenti) mettendo in dubbio la necessità di tali allontanamenti, dato che le motivazioni non erano secondo loro gravi ovvero non c’era pericolo di vita per i minori.

Mi piacerebbe che nei media passasse un’idea diversa del sistema minorile e delle professionalità coinvolte, soprattutto perchè poi noi operatori dobbiamo lavorare con persone già diffidenti e in un ambiente coatto e non aiuta proprio una cultura diffusa che i Servizi/tribunali rubino i bambini o ne facciano addirittura traffico/merce per motivi economici (le rette selle comunità citate dai 70 ai 400 euro mi sembrano fuorvianti!).

Se possibile potreste approfondire l’argomento magari chiedendo pareri autorevoli (cito solo ad esempio personalità legate al Centro del bambino maltrattato di Milano che conosco bene per la professionalità e competenza che ha fatto scuola nell’ambito della protezione dei minori).
grazie,

dr.ssa Silvia Pedretti

 

COMMENTO REDAZIONALE DI LORITA TINELLI

Tutti i grandi sono stati bambini una volta (Ma pochi di essi se ne ricordano)
Antoine de Saint-Exupéry

 

Negli ultimi tempi i media si sono fatti promotori della tutela dei minori “sottratti” alle famiglie, per i motivi più disparati, e inseriti nelle diverse comunità presenti su tutto il territorio nazionale.
Il motivo di tanto interesse è stato determinato da casi eclatanti, che hanno posto la necessità di riflettere sulle modalità di inserimento dei minori in alcune comunità, su eventuali collegamenti tra operatori del sistema giustizia e le stesse e su eventuali impreparazioni o non conoscenze degli stessi operatori presenti nei diversi contesti istituzionali deputati a decidere sulle sorti dei minori e delle loro famiglie d’origine.
Uno dei casi più clamorosi, balzati alla cronaca giudiziaria e non solo, è stato il caso Forteto di Vicchio, nel Mugello. Una comunità che dal 1977 accoglieva minori in difficoltà e gestita da Rodolfo Fiesoli e da ventidue suoi collaboratori, oggi tutti sotto processo con l’accusa di  violenza sessuale su minori e maltrattamenti. Fiesoli era stato condannato nel 1979  a due anni di carcere per atti di libidine violenta, corruzione di minorenne e maltrattamenti (sentenza passata in giudicato nel 1985).  E nonostante tutto, complice anche l’incredibile cecità di chi doveva garantire l’affidabilità della comunità (Asl, giudici del tribunale dei minori, assistenti sociali, amministratori locali, regione toscana, ma anche psicologi, giornalisti, politici, educatori, sacerdoti che ne avevano garantito l’affidabilità anche a mezzo di pubblicazioni scientifico/divulgative), Fiesoli era ritornato a gestire la comunità. Anzi, proprio nei giorni successivi alla sua scarcerazione il tribunale dei minorenni, gli affidava un bambino down, a dimostrazione che il legame di fiducia tra l’istituzione giuridica e quella comunità non si era affatto incrinato. Anzi è continuato, malgrado nel 2000 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo a Strasburgo abbia condannato l’Italia al pagamento di una multa di 200 milioni di lire come risarcimento dei danni morali a due minori, per il loro affidamento alla comunità. Il problema  sollevato dalla CEDU era che i  “pubblici poteri” avrebbero dovuto evitare l’affidamento di bambini a  persone “condannate per maltrattamenti e abusi commessi su persone che a quell’epoca erano loro affidate all’interno della stessa comunità”.  Ma nonostante tutto gli affidamenti sono continuati.
Probabilmente questa non è la normalità del rapporto tra sistema giudiziario e l’affidamento dei minori. Di sicuro vi sono operatori coscienziosi, istituzioni affidabili e professionisti ineccepibili. Ma la storia del Forteto ha rappresentato un caso che fa riflettere e pone dubbi sulla presenza di certa superficialità in chi si adoperano per la tutela dei minori in difficoltà, evidenziando l’assenza di una rete adeguata di controlli in tali dinamiche e forse una grande capacità di tessere relazioni ‘eccellenti’ di alcuni rappresentanti delle comunità, in assenza di giusti requisiti.
La preoccupazione di tutto ciò, sollevata dai media anche grazie a testimonianze e segnalazioni di altre storie e di altri tribunali, è stata recepita da l’On. Michela Vittoria Brambilla, presidente della commissione bicamerale per l’infanzia e l’adolescenza, che insieme ad altri 32 cofirmatari, ha presentato una interrogazione urgente (2-00373) (1), destinata alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, al Ministero del lavoro e delle Politiche Sociali, al Ministero della Giustizia e al Ministero dell’Interno. Il testo, presentato nel gennaio 2014 riguardava iniziative a tutela dei minori “fuori famiglia”, con particolare riferimento alla valorizzazione dell’istituto dell’affido temporaneo ed ai controlli sulle strutture di accoglienza di tipo familiare.
L’interrogazione parte dalla premessa che  “il minore ha diritto di crescere ed essere educato nell’ambito della propria famiglia” , pertanto gli dev’essere  garantito l’affidamento ad una famiglia o persona singola, capace di provvedere adeguatamente alla sua educazione, istruzione e relazioni affettive, come da legge del 4 maggio 1983 n. 184. E laddove questo non fosse possibile, in extrema ratio, è previsto l’inserimento in una comunità di tipo familiare o in un istituto di assistenza pubblica o privata, secondo modalità e tempi prefissati. Dalla documentazione presentata dalla Brambilla si evince che alla commissione da lei presieduta giungono continuamente segnalazioni e denunce su allontanamenti di minori dalle famiglie, spesso disposte dall’esito di valutazioni frettolose dell’ambiente familiare naturale. E non sempre le case famiglia o le comunità si dimostrano adeguate all’accoglienza (2).
La Brambilla afferma ancora che “l’allontanamento è la certificazione di un fallimento dello Stato : invece di aiutare, con risorse o servizi adeguati, la famiglia e il minore che ci vive, la mano pubblica rischia di peggiorare le cose negando a un bambino il diritto di crescere tra i suoi, garantito dalle convenzioni internazionali, e creandogli un trauma probabilmente indelebile. Occorre invece sostenere la genitorialità con programmi di supporto e dare maggiore e migliore ascolto al minore stesso” (3).

Considerata la complessità delle dinamiche poste in essere in simili situazioni, dei bisogni e delle necessità dei sistemi relazionali,  nonché delle professionalità impegnate in tali dinamiche e delle  qualità delle loro competenze ed esperienze, l’errore risulta un elemento di cui tener conto.
Le richieste di ispezioni e valutazioni del tutto, fatte dalla Brambilla, quindi, potrebbero costituire una fonte di garanzia per la tutela dei minori. Non solo, ma anche l’adozione di modalità più trasparenti e più capaci di manifestare in tempo utile qualche intoppo, in modo da poterlo risolvere, sempre tenendo al centro dell’attenzione il benessere del minore.

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Note

1 http://www.coordinamentocare.org/public/index.php/news/292-interpellanza-urgente-2-00373-sui-bambini-fuori-famiglia.html
2 dall’Interrogazione: “Nelle case famiglia con ripercussioni gravissime sulla salute e sulla formazione del minore; recenti stime attestano che il numero di bambini fuori famiglia è oscillato in Italia negli ultimi anni tra le 25 e 30 mila unità rispetto agli anni passati, e che l’affidamento temporaneo è cresciuto intorno al 24 per cento;  in Italia non esiste un sistema di monitoraggio strutturato a livello istituzionale che rilevi dati omogenei e confrontabili, né tanto meno una mappatura degli istituti residenziali di accoglienza, sulla qualità di tali strutture, sulla qualifica del personale, sul valore dei servizi erogati e sulla progettualità dell’affido; la mancanza di rilevazioni periodiche e di una vera e propria organizzazione a livello istituzionale hanno portato, in molti casi, alla necessità di proporre valori di stima per molte realtà regionali, evidenziando serie difficoltà nel reperire informazioni trasparenti sul fenomeno dei bambini fuori dalla famiglia e sulle loro condizioni di vita nelle comunità residenziali di accoglimento, rendendoli dei bambini invisibili; […] in assenza di informazioni attendibili su ciò che avviene nelle case famiglia, i minori passano dalla condizione di «allontanati» a quella di «abbandonati», spesso senza possibilità di avere contatti col mondo esterno; “
3 dall’Interrogazione: “l’allontanamento del minore dalla famiglia e la sua conseguente istituzionalizzazione rappresentano un vero e proprio trauma per il bambino che, nella maggior parte dei casi, viene strappato nel giro di pochi giorni dal nucleo familiare senza che sia predisposto un percorso psicologico di sostegno, e deve attendere mesi, e spesso anni, per essere reinserito;”


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PARERE DEL DR. SAVERIO ABBRUZZESE

Avrete notato che l’attacco agli operatori della giustizia minorile ha una certa periodicità nei nostri media. Ogni tanto qualcuno si erge a censore e spara una serie di stupidaggini che discreditano gli operatori del settore, con giudici insensibili, assistenti sociali che rubano i bambini, psicologi compiacenti, se non addirittura corrotti, ed amenità del genere.
Le iene hanno partecipato a questo banchetto sanguinolento con estrema voracità ed assoluta disinformazione.
Chiariamo subito un punto della questione. La presenza dei giudici onorari nei tribunali per i minorenni serve a garantire un approccio interdisciplinare alle problematiche minorili: il diritto, da solo, non basta. È necessario l’apporto di altri saperi; e non credo che qualcuno possa avere dei dubbi sulla assoluta pertinenza di questo assunto.
Ma se accettiamo il fatto che in un TM siano presenti psicologi, assistenti sociali, pedagogisti, neuropsichiatri infantili, educatori, etc., allora dobbiamo anche accettare il fatto che questi professionisti portino negli uffici giudiziari non solo la loro competenza, ma anche la loro esperienza. A cosa servirebbe un laureato in psicologia che non abbia mai lavorato con i bambini? Lo stesso vale per le altre professionalità. In altri termini questi professionisti portano necessariamente all’interno degli uffici giudiziari la loro esperienza del territorio e non sterili nozioni acquisite nel corso dei loro studi. Pertanto la presunta incompatibilità fra le funzioni di giudice onorario e quella di operatore dei servizi non ha davvero senso ed è assolutamente fuorviante porre la questione in questi termini in un programma televisivo.
A questa preliminare considerazione, bisogna aggiungerne un’altra, più tecnica.
In un tribunale per i minorenni ogni decisione è presa da un collegio giudicante formato da quattro giudici, due magistrati, di cui uno è presidente della camera di consiglio, e due giudici onorari. Se consideriamo un medio tribunale che ha in servizio una trentina di giudici onorari e una decina di giudici professionali significa che c’è la possibilità di formare un numero ragguardevole di camere di consiglio. Ovviamente, qualora si debba prendere una decisione che riguardi una comunità o un servizio in cui lavori un giudice onorario, il Presidente del Tribunale farà in modo che questo giudice onorario non faccia parte di quel collegio giudicante.
Ma questo le iene non lo hanno detto.
Aggiungo che di solito i giudici del TM hanno una ripartizione territoriale, per cui gestire queste incompatibilità è molto facile. Faccio un esempio: il TM di Bari si occupa delle provincie di Bari, BAT e Foggia. Ad un giudice onorario di Foggia, che svolge l’attività di psicologo in un consultorio di Foggia o provincia sarà sicuramente assegnato un territorio che fa parte della provincia di Bari, con cui non ha alcuna possibilità di interferire nella sua attività professionale. Senza contare che qualora questa remota ipotesi si verifichi, ha l’obbligo di astenersi in camera di consiglio.
Insomma, spero di essere stato chiaro: si tratta davvero di un falso problema, pompato ad arte per fare e dare scandalo. Per anni ho svolto la funzione di giudice onorario al TM di Bari, mi occupavo di adozioni, in particolare della valutazione delle coppie che presentavano dichiarazione di disponibilità. Essendo io residente nella provincia di Bari, il Presidente mi affidava le coppie del foggiano. In quasi vent’anni di attività non mi sono mai trovato in situazioni di incompatibilità o di conflitto di interessi. Mai.

Saverio Abbruzzese
Psicologo psicoterapeuta
Già giudice onorario del TM di Bari

Fonte: http://www.osservatoriopsicologia.com/2014/09/17/una-giustizia-a-misura-di-bambino/

Psicologi o Abusologi?

SEGNALAZIONE

Carissimi colleghi,

mi è capitato di leggere stamattina il seguente articolo che si presenta come interrogazione parlamentare presentata contro  psicologi e psichiatri che si occupano nei tribunali di valutazione del danno di presunte vittime di pedofili. Colui che ha presentato l’interrogazione sostiene che tali figure professionali non solo non siano competenti per tale valutazione, ma aggiunge che  non siano capaci di apportare dati oggettivi, come farebbe invece la criminologia, ma solo dati interpretativi e quindi fallaci.

 

LINK ORIGINALE

http://www.abusologi.com/69

COMMENTO REDAZIONALE A CURA DELLE DR.SSE LORITA TINELLI E SIMONA RUFFINI

La segnalazione ricevuta ci dà la possibilità di chiarire alcuni punti estremamente importanti (dato soprattutto il campo di applicazione che è quello dell’abuso al minore) relativi a quello che è (o dovrebbe essere) il ruolo dell’esperto psicologo chiamato come consulente o perito. Nell’interrogazione parlamentare segnalata infatti riscontriamo alcune inesattezze proprio relativamente al ruolo delle figure professionali coinvolte e al loro delicatissimo compito.

La prima di queste gravi inesattezze è rappresentata, nell’interrogazione citata, dall’espressione “sempre più fatti di recente cronaca giudiziaria dimostrano come Giudici e pubblici Ministeri fanno sempre più affidamento alle opinioni, perizie e conclusioni di psicologi e psichiatri con l’assunto che grazie alla loro conoscenza sia possibile determinare la colpevolezza o l’innocenza di una persona”. Ci preme infatti precisare che la possibile dimostrazione di colpevolezza è affidata esclusivamente alle prove scaturite dall’attività di investigazione giudiziaria, non certo alle perizie. Inoltre va fatta una sostanziale distinzione tra perizia psichiatrica e perizia psicologica. La perizia psichiatrica infatti viene richiesta allo psichiatra (naturalmente) ed è utilizzata per dimostrare ad esempio una eventuale infermità o seminfermità di mente piuttosto che la compatibilità col sistema carcerario. La perizia psicologica invece non esiste affatto (sull’adulto) essendo espressamente vietata dall’articolo 220 del nostro codice di procedura penale: “Salvo quanto previsto ai fini dell’esecuzione della pena o della misura di sicurezza, non sono ammesse perizie per stabilire l’abitualità o la professionalità nel reato, la tendenza a delinquere, il carattere e la personalità dell’imputato e in genere le qualità psichiche indipendenti da cause patologiche[1]”.

La perizia psicologica invocata nell’interrogazione dunque non può che essere quella richiesta nei casi di presunto abuso non per dimostrare la colpevolezza di chicchessia (non esiste un test di alcun tipo che potrebbe farlo) ma solo e soltanto per la valutazione dell’attendibilità del minore che racconta i fatti.

Questo punto va chiarito con forza poiché altrimenti si diffonderebbe una pericolosa credenza in qualche tipo di potere magico affidato agli psicologi che è ciò che trapela dalle giuste preoccupazioni espresse nell’interrogazione.

L’altra grave inesattezza riscontrata nell’interrogazione è rappresentata dalla seguente frase: “lo stesso sistema, cioè l’uso di perizie psicologiche e psichiatriche usate a quel che consta all’interpellante come uniche prove…”.  Pur accogliendo con molto interesse qualunque critica mossa nell’esclusivo interesse dei minori non possiamo trascurare gli errori sostanziali contenuti in questa interrogazione.  Secondo l’articolo 187 del nostro codice di procedura penale (che chi si occupa di psicologia giuridica e chi critica lo psicologo giuridico deve conoscere), la prova è l’insieme dei fatti che: “si riferiscono all’imputazione, alla punibilità e alla determinazione della pena o della misura di sicurezza [2]”. Le prove soprattutto si formano in dibattimento. Questo vuol dire nella pratica che tutto quanto raccolto nella fase di indagini deve essere “validato” in aula. La perizia (o sarebbe meglio definirla consulenza tecnica per non creare confusione con il lavoro dello psichiatra) è una cosa ancora a parte, non solo perché il giudice potrebbe teoricamente non tenerne conto (seppure nella pratica i consulenti vengono interpellati proprio per aiutare il giudice nel suo libero convincimento) ma soprattutto perché la consulenza non è una prova! Vero è senza dubbio che a volte la notorietà mediatica dei consulenti nominati dilaga a discapito della controparte, ma certamente la consulenza è un aiuto per il giudice, non certamente una prova della quale egli debba tener conto.

L’altro punto saliente dell’interrogazione riguarda la professionalità degli esperti chiamati in causa. Anche qui riscontriamo alcune generalizzazioni che nuocciono al discorso.  La frase in questione è la seguente: “mentre in Italia è chiaro a tutti che per opere d’ingegneria occorre l’ingegnere, non lo è, invece, per la criminologia; posto che ad occuparsi di crimini non è il criminologo clinico…ma lo psicologo, lo psichiatra, l’assistente sociale, eccetera”. Purtroppo a causa della sovraesposizione a telefilm di ogni sorta o a sedicenti criminologi che impazzano anche nel nostro paese,  occorre anche qui fare una chiara e netta distinzione tra le figure professionali chiamate in causa.  Lo psicologo non si occupa di crimini, si occupa di psicologia, lo psichiatra non si occupa di crimini ma di medicina, il sociologo potrebbe occuparsi di crimini nel caso in cui effettuasse un’analisi appunto sociologica del fenomeno ma non ci risulta che ad un sociologo venga affidata una consulenza tecnica attraverso la quale dimostrare l’attendibilità di un minore. Il criminologo di cosa si occupa? Ecco, forse questo è il nocciolo della questione. Su questo accogliamo in pieno la perplessità espressa nell’interrogazione, non certo riferita allo psicologo serio, esperto, preparato, ma verso tutte quelle figure ibride che hanno specializzazioni inesistenti o inutili. Questo perchè un criminologo (qualunque cosa voglia dire) non entra in tribunale a verificare l’attendibilità della testimonianza di un bambino se non è uno psicologo serio, preparato, formato. Dunque semmai l’attenzione andrebbe posta alle competenze dello psicologo specificamente formato in questo campo e in collaborazione con lo psichiatra, uniche figure deontologicamente e professionalmente preposte.  A tale proposito i suddetti hanno come guida delle linee emanate dai propri ordini di riferimento in materia, alle quali si appellano e che li indirizzano proprio nel delicatissimo campo dell’abuso al minore.  Più che invocare il criminologo (poiché a tutt’oggi tale figura non esiste nemmeno professionalmente) sarebbe meglio (per il minore stesso) verificare e rafforzare le competenze degli psicologi che già fanno, nella maggior parte dei casi egregiamente, tale lavoro. Perché nei casi di presunto abuso ai minori il consulente non si occupa del criminale o del crimine, ma della vittima. E lo psicologo (se preparato), così come lo psichiatra, sono sicuramente più che adeguati.

 

PARERE A CURA DEL PROF. SAVERIO ABRUZZESE

Premessa: tutte le indagini epidemiologiche hanno accertato che sul tema degli abusi sessuali c’è un’impressionante diffusione del fenomeno, una disarmante scarsità di denunce ed una sconfortante esiguità delle condanne.

Davanti ad un fenomeno così sommerso dobbiamo porci alcune inquietanti domande: di fronte alla necessità di alzare il tiro contro la violenza sui minori è più accettabile correre il rischio che un adulto innocente venga condannato o che un minore vittima non venga creduto? È una domanda scomoda, anche perché fa riferimento ad una logica guerrafondaia in cui si usa fare previsioni sulle vittime di un conflitto. Ma questo clima si avverte. Inutile soffermarci sul fatto che un innocente non dovrebbe essere condannato e che un minore non dovrebbe essere ritenuto a priori attendibile, ma la verità è che le armi a disposizione dell’imputato sono molte di più di quelle di una vittima bambino. È una lotta impari e noi abbiamo il dovere – o per lo meno dovremmo sentirlo – di aiutare e sostenere il più debole. Questo non significa perdere la neutralità o schierarsi. Ma sappiamo benissimo come le verità processuali siano più difficilmente dimostrabili delle verità cliniche. E vorrei anche uscire al più presto da questa logica militaresca, perché non è edificante parlare di una guerra di adulti contro bambini. Gli avvocati degli abusanti per contratto devono difendere i loro clienti, ma ci sarà un modo per farlo senza ritenere i bambini irrimediabilmente inattendibili, fantasiosi, bugiardi, etc.

Se continuiamo ancora a vivere in questo clima di contrapposizione fra operatori del diritto schierati dalla parte degli adulti e operatori psicosociali schierati dalla parte dei bambini non cresceremo. Né noi, né loro.

Probabilmente non abbiamo ancora metabolizzato la violenza e abbiamo qualche difficoltà a fondare la cultura dell’antiviolenza. Abbiamo bisogno di continuare a parlarne e confrontarci, per evitare di inciampare nella pietra dello scandalo.

Una certa cautela è necessaria, non lo metto in dubbio, in considerazione del fatto che c’è un aumento di false denunce e di strumentalizzazioni della violenza sessuale nei procedimenti di separazione, ma la cautela non deve trasformarsi in omertà.

Abbiamo acquisito che gli indicatori dell’abuso sono aspecifici, ma la contemporanea comparsa di più fattori dovrebbe insospettire: la distrazione a scuola, le difficoltà di apprendimento, l’isolamento, una condotta erotizzata precoce, segni fisici inequivocabili, comportamenti bizzarri, compiti in classe o letterine alle insegnanti, etc.

L’Unione delle Camere Penali, invocando i principi del giusto processo, insiste sulla necessità della videoregistrazione integrale delle dichiarazioni del minore fin dalle fasi iniziali dell’indagine e sulla opportunità dell’esame e controesame del minore, comunque tutelandolo, ma assicurando anche i diritti dell’imputato. La verità è che non si tutela un minore costringendolo a ripetere la stessa storia, a rivivere il trauma subito. Una bambina costretta a ripetere sempre la stessa storia può iniziare a dubitare di non essere creduta e quindi rifiutarsi di parlare. Gli avvocati non aspettano altro. Ma questa non è una ritrattazione. È un’ulteriore forma di violenza sulla vittima.

La quale deve anche subire i tempi del processo, in cui si garantiscono i diritti dell’imputato, ma non alla stesso modo quelli della vittima. Più volte mi è capitato di attendere che il procedimento penale a carico dell’abusante si definisse per poter ascoltare il minore in merito ad interventi civili di protezione e tutela.

L’AIMMF (Associazione Italiana dei Magistrati per i Minorenni e per la Famiglia), in un documento [3] datato 8/3/2008, ha riaffermato decisamente che “gli interventi di cura, psicologici ed educativi, non possono essere né rinviati né subordinati in relazione ai tempi del processo penale, ad esigenze di segretezza e alle garanzie dell’indagato o imputato già previste dalla legge; curare un bambino che sta male non può mai ledere diritti altrui”.

In merito all’audizione protetta del minore, lo stesso documento afferma che “l’ascolto del minore vittima in ogni sede, compresa quella giudiziaria, non può che essere condotto con modalità empatiche adeguate alle sue modalità espressive e di verbalizzazione; egli va ascoltato tenendo conto delle sue possibilità e capacità di racconto. Il documento fa anche riferimento alla necessità che il minore-vittima sia sempre seguito nei percorsi giudiziari civile e penale da un’unica figura di accompagnamento nella persona del curatore speciale “che non lo lasci solo; lo informi, lo conduca e accompagni al processo, gli nomini se del caso un difensore specializzato” ed infine auspica che i magistrati che si occupano di questa materia siano adeguatamente preparati e formati.

In definitiva abbiamo da un lato alcuni professionisti seriamente interessati alla tutela del minore, decisamente impegnati nell’impedire alla vittima una vittimizzazione secondaria, che è quella degli ascolti ripetuti e della violenza della macchina giudiziaria; ci sono poi altri professionisti che utilizzano i loro saperi per mettere in dubbio la credibilità di una bambina abusata, spiegando ai magistrati che le risposte date ad un test proiettivo non costituiscono una prova, anche perché sono confutabili. In questa polemica fra specialisti delle scienze umane si inseriscono volentieri gli avvocati; per il momento ci sono i penalisti che hanno tutto l’interesse nell’invalidare le dichiarazioni di un minore vittima, ma è prevedibile che fra un po’ anche i curatori speciali faranno sentire la loro voce per schierarsi, presumibilmente, dalla parte del minore vittima e testimone.

Non vorrei correre il rischio di apparire fazioso. Mi sembra inevitabile che gli avvocati difendano il loro cliente, ma non si può dire che questa diritto alla difesa si fondi sull’interesse del minore. Il giusto processo non può trasformarsi in un’altra violenza sui minori.

E non trascuriamo – infine – un altro conflitto spesso presente sui nostri giornali: la destra chiede pene più severe, ronde cittadine, maggiore sicurezza, etc.; la sinistra chiede una maggiore attenzione all’educazione all’affettività, una maggiore prevenzione, la rieducazione del reo. Le richieste non sono incompatibili, al contrario “devono” diventare compatibili. La sicurezza dei cittadini e dei bambini in particolare, non può essere oggetto di polemiche. È impensabile che la destra risulti più attenta ai bisogni del cittadino, mentre le sinistra a quelli dei delinquenti. Non ha senso. Sono molto preoccupato che l’attività delle ronde per strada possano trasformarsi in giustizia privata. Sono stufo di questa abitudine, tutta italiana, di polarizzare il dibattito sui temi dell’antiviolenza.

Alcuni operatori psicosociali si impegnano nel dimostrare che un minore è inattendibile, altri prendono per oro colato tutto quello che esce dalla bocca di un bambino. Alcuni vorrebbero l’inasprimento delle pene e la giustizia fai da te, altri sostengono che solo con un trattamento sull’abusante si evitano i rischi della recidiva.

Perché non diciamo semplicemente che il bambino va ascoltato con molta attenzione, non dando per scontato che dica la verità, ma senza accanirci nel dimostrare in mala fede la sua inattendibilità. Una maggiore severità nel punire questi reati è condivisibile, ma evitando la giustizia privata ed i linciaggi, che per la verità, in questi ultimi tempi, diventano sempre più frequenti. L’antiviolenza è e deve essere soprattutto una prova di civiltà.

Non mi sembra il caso di litigare anche su questo. Non si può litigare sull’antiviolenza. È un controsenso.

Un discorso a parte è quello che riguarda i presunti abusi successivi alla separazione dei genitori. In questo caso la responsabilità del genitore affidatario che denuncia l’abuso è innegabile. Perché se il bambino non ha subito violenza sessuale dal genitore non affidatario allora è stato vittima di una violenza psicologica da parte del genitore affidatario. Delle due, una. Instillare in un bambino il dubbio che il padre abbia fatto violenza su di lui significa inevitabilmente comprometterne lo sviluppo affettivo.

Qual è il confine fra i dubbi di una madre e la sua mala fede? I sospetti su un padre che si occupa dell’igiene intima di una figlia sono tali da poter giustificare una denuncia? Sorge il dubbio che in una separazione conflittuale quei sospetti siano funzionali alla eliminazione della figura paterna dalla vita della figlia. Questa eliminazione si consuma sia nel caso che l’abuso ci sia  stato, sia nel caso che non ci sia stato, perché il rapporto di quel padre con la figlia è già inquinato dal sospetto materno.

La violenza sessuale sui minori è caratterizzata dal fatto che il bambino non ha gli strumenti cognitivi ed affettivi per percepire la violenza, almeno in un primo momento. La confusione dei linguaggi rende indecifrabile l’esperienza traumatica; ma nei casi di false denunce da parte di genitori separati è come se tutto fosse svelato prima del tempo, costringendo il bambino a riferire e a fare proprie cose che non avrebbe mai sospettato. “Come ti tocca papà?”, “Dove di tocca?”. Il tarlo del dubbio è instillato.

Sul versante opposto ci sono genitori che ritengono i figli troppo piccoli per capire. Di fronte alla violenza assistita spesso si adduce questo tipo di giustificazione: “Non pensavamo che capisse quello che stava succedendo, è troppo piccolo …”, “Chi avrebbe mai immaginato…”

Lo stesso pretesto viene utilizzato nei casi di corruzione di minorenne, quando il bambino assiste ad atti sessuali dei genitori; anche in questo caso il bambino è troppo piccolo per capire.

Insomma, ci sono casi in cui il bambino è troppo piccolo per capire, ed altri in cui è abbastanza grande non solo per capire, ma anche di riferire nel processo.

La capacità di un bambino di capire e riferire dipende dall’obiettivo che vuole raggiungere il genitore: screditare l’ex coniuge o coprirlo. Nel primo caso il bambino viene invitato a riferire, nel secondo a tacere. Nel primo caso a riferire quello che non è successo. Nel secondo a tacere quello che è successo.

Segnaliamo subito un problema: interesse della giustizia è scoprire la verità, l’interesse del minore consiste nel tutelarlo. Non sempre questi due interessi sono compatibili. Spesso accade che il prevalere dell’uno comprometta l’altro. Compito degli operatori dell’antiviolenza è quello di rendere questi due interessi il più possibile compatibili, se non addirittura sovrapponibili.

Un ascolto protetto condotto male può trasformarsi in un’incomprensibile violenza sul minore abusato, ma se fatto bene, ha un effetto catartico, aiuta il processo di svelamento, non costituisce un ulteriore trauma.

Il bambino nel processo è un argomento molto delicato e ricco di implicazioni metodologiche che vanno approfondite. Siamo tutti d’accordo sul fatto che le capacità empatiche di chi ascolta favorisca l’ascolto del minore, ma c’è il rischio che proprio questa empatia si traduca in una sorta di alleanza fra ascoltatore ed ascoltato, che induca quest’ultimo a compiacere il primo. C’è il rischio, insomma, che la capacità empatica si trasformi da risorsa in limite nella misura in cui invece di ottenere la verità suggerisce le risposte. Dietro questo dubbio si cela un’altra domanda inquietante: stiamo disquisendo sulla inattendibilità del bambino o dell’impreparazione di chi ascolta o peggio della sua mala fede? Utilizzare la capacità empatica per suggerire le risposte attiene alla inadeguatezza di chi ascolta, non all’inattendibilità del minore. E non dimentichiamo che convincere un bambino a riferire quello che non è gli è successo significa comunque fargli violenza perché il suo rapporto con il genitore accusato ingiustamente è definitivamente compromesso. Ma anche costringerlo a ritrattare una violenza subita costituisce un’ulteriore forma – la peggiore – di violenza sulla vittima.

Se sussiste il rischio che il bambino testimone compiaccia l’intervistatore empatico, significa che dobbiamo rinunciare all’empatia e scegliere una modalità d’ascolto più fredda e neutrale? Essere neutrale significa essere freddi? Perché la neutralità deve essere associata alla freddezza? Si può essere neutrali e caldi? O se si è caldi si suggeriscono le risposte?

Queste domande non mi piacciono, perché mettono al primo posto un presunto interesse della giustizia su quello del minore abusato. Mettere a proprio agio un bambino non può costituire un ostacolo al corso della giustizia, né tanto meno è ammissibile che un procedimento penale a carico di un abusante prenda il sopravvento sui provvedimenti cautelari in favore di un minore. Eppure mi è successo che per espletare una consulenza tecnica d’ufficio disposta dal Tribunale per i minorenni ho dovuto aspettare per più di un anno che si concludessero le indagini disposte dal PM sui presunti abusanti.

Ma torniamo al bambino testimone.

Fra domande suggestive e risposte indotte, falsi ricordi, assecondamenti e confabulazione la testimonianza del minore diventa uno dei temi più scottanti e affascinanti della psicologia giuridica.

Ricordiamo che la capacità “fisica e mentale” a testimoniare può costituire il quesito di una consulenza tecnica, mentre l’attendibilità dovrebbe essere una valutazione del magistrato.

Pertanto idoneità a testimoniare e attendibilità non rappresentano la stessa capacità. Essere in grado di riferire l’accaduto non significa che si riferisca la verità. Le categorie della competenza, della credibilità e dell’accuratezza del ricordo sono elementi che contribuiscono a stabilire il contenuto di un ricordo, ma come si può tenere così rigorosamente separati la verità processuale dal ricordo dell’evento traumatico? L’elemento processuale dal dato clinico? Un minore abusato avrà pure il diritto di rimuovere il trauma, ma questa non è ritrattazione. Rimozione o ritrattazione? Sarebbe un bel quesito, in cui il perito dovrebbe attribuire ad un processo psicologico un significato giuridico.

I bambini – comunque – sono più attendibili di quello che alcuni difensori vorrebbero far credere. Abbiamo detto che la valutazione dell’attendibilità non dovrebbe essere un accertamento tecnico. Ma c’è un modo per aggirare l’ostacolo: una consulenza sulla coerenza interna di quanto dichiarato dal minore è un modo molto elegante per far coincidere capacità a testimoniare, valutata dal perito ad attendibilità, che dovrebbe essere valutata dal magistrato.

Non è facile districarsi in questi concetti al confine fra il diritto e la psicologia, non lo è mai stato, ma dobbiamo avere il coraggio di ammettere che quello che il bambino rivela dipende sia dal gioco delle proiezioni del bambino in chi ascolta, ma anche di quest’ultimo nei confronti del bambino e del suo abusante. L’esperto costruisce insieme al bambino la verità processuale e pertanto è necessaria la sua totale buona fede. In questo senso va interpretata la sua neutralità: la capacità di non farsi condizionare dalle indagini svolte e dalle aspettative di magistrati e avvocati, ma di concentrarsi solo sul mondo del bambino.

Non è affatto facile, soprattutto quando la vittima è un disabile. Il bambino disabile più facilmente diventa vittima dell’abusante, ha quasi il doppio di probabilità di diventare vittima rispetto ai bambini senza disabilità. L’abusante sa scegliere le sue vittime. Ma questo rende ancora più complesso il problema processuale dell’attendibilità e della capacità a testimoniare. Un altro vantaggio per l’abusante.

Compito dell’operatore dell’antiviolenza pertanto è quello di facilitare la testimonianza delle vittime. In altri termini, il modo migliore per combattere la violenza è quella di rendere attendibili e capaci di testimoniare le vittime, sia i minori sia i disabili.

Non dobbiamo porci il problema se i minori siano o non siano attendibili e capaci di testimoniare, ma come renderli attendibili e capaci.

Non dobbiamo farci tentare dalla tentazione verificazionista, cioè di confermare l’ipotesi iniziale del presunto abuso, compiacendo il minore e facendo in modo che lo stesso minore compiaccia il suo intervistatore; ma dobbiamo stare attenti anche alla tentazione falsificazionista, mettendo in difficoltà il minore testimone, per mettere alla prova la sua capacità di testimoniare; anche questa  è un’ulteriore forma di violenza. Il minore non è un’ipotesi da falsificare per verificare la sua attendibilità. Dovremmo stare lontani dalla compiacenza del verificazionismo e dal sadismo del falsificazionismo. Mi viene il dubbio che il conflitto di fondo fra verità processuale ed interesse del minore è viziata dall’inveterata abitudine di confondere la verità processuale con la tutela dell’imputato. D’accordo sul garantismo, ma anche la tutela del minore va garantita. Non anche, soprattutto.

[1] http://www.altalex.com/index.php?idnot=36786

[2] http://www.altalex.com/index.php?idnot=36785

[3] Il documento è pubblicato in Minorigiustizia, n2/2008, pag. 333

 

Fonte: Osservatorio Psicologia nei Media