Come cercare un terapeuta qualificato quando hai fatto una esperienza in ambito settario e non solo

Psicoterapia: perché iniziare? Come scegliere il terapeuta? Quali gli  obiettivi raggiungibili? - Il Castello Edizioni e Il Mattino di Foggia

Nel 1998 veniva pubblicato in Italia il libro “Psicoterapie Folli. Conoscerle e difendersi” di Janja Lalich e Margaret Singer, con prefazione dell’allora Presidente dell’Ordine degli Psicologi Veneto, Paolo Michielin, casa editrice Erckson. Peccato che il libro ora sia pressocchè introvabile, ma risulta ancora un ottimo saggio che fa riflettere sulle tante metodiche invasive e pericolose, spesso ai confini con la pratica psicologica ortodossa, che vengono proposte come attività curative da guru e sedicenti professionisti della salute mentale. Quel che è chiaro è che il testo evidenzia come sia facile scivolare verso l’antiscienza e l’abusivismo, combinazioni queste, che pur promettendo guarigione, provocano danni, spesse volte duraturi.

La parte finale del libro sottolinea l’importanza di diventare consumatori attenti e consapevoli, specialmente quando affidiamo la nostra salute mentale a qualcuno che deve aiutarci. Le autrici riportano un elenco di domande da porsi e da porre al terapeuta cui si sceglie di affidarsi, per comprendere se esso sia realmente qualificato e in grado di valutare la propria salute mentale anche nel contesto delle esperienze specifiche vissute, ovvero quelle delle influenze settarie e manipolatorie.

La stessa Professoressa Janja Lalich nel suo sito riproduce l’utile elenco di domande, sostentendo che è assolutamente normale “intervistare” i terapeuti per assicurarsi di poter realmente risolvere le proprie problematiche in quel preciso percorso e con quella precisa persona. “E’ importante valutare il loro livello di professionalità e se essi si sentono o meno adatti ad interagire con la specifica esperienza dell’adesione a contesti cultistici”, sostiene la Lalich.

Di seguito le domande da fare al professionista:

Qual è la sua laurea o i suoi accreditamenti?
Quali sono la sua formazione e competenza?
Ha esperienza di lavoro con i traumi? Quali tipi di trauma? (Nota: l'esperienza con il disturbo da stress post-traumatico complesso sarà utile).
Che tipo di terapia pratica? Che caratteristiche avrà nel mio trattamento?
Cosa succede se non mi sento a mio agio con il tipo di terapia che pratica? Come lo risolveremo?
E'raggiungibile in caso di crisi ed emergenza? In caso negativo, puoi fornirmi risorse che possono aiutarmi se ciò dovesse accadere?
Ha qualche formazione o comprensione degli impatti delle sette, della riforma del pensiero, della coercizione o dell'abuso?
Pratica l'ipnosi o altre tecniche di induzione della trance? (Nota: alcuni tipi di terapie che utilizzano concetti new age, visualizzazione guidata e ipnosi possono essere scatenanti per chi ha avuto una esperienza in ambito settario. Procedere con cautela.)
Come spiea le tariffe e la politica di annullamento della visita? (Nota: trasparenza e chiarezza sono importanti)
Come stabilite gli obiettivi del trattamento? Che aspetto ha questo processo?
Se mi sento a disagio con qualcosa che fa o suggerisce, come dovrei gestirlo?

Inoltre, esistono delle domande da farsi dopo l’incontro iniziale col terapeuta:

Mi sono sentito ascoltato, compreso e rispettato dal terapeuta?
Mi sono sentito come se la relazione fosse collaborativa con il terapeuta o lui era l'"esperto" ed io l'allievo?
Il terapeuta è stato disposto a capire e apportare modifiche se c'era qualcosa che mi metteva a disagio?
Il terapeuta è stato disposto a indirizzarmi a qualcun altro se non aveva il livello di esperienza necessario per affrontare i miei bisogni terapeutici?
Il terapeuta è stato aperto e diretto nel rispondere a tutte le mie domande?
Il terapeuta sembrava sensibile, intelligente e maturo? Sembrava essere qualcuno con cui posso sentirmi al sicuro?
Il terapeuta era aperto e disposto a imparare di più e a lavorare per capire di più le mie specifiche aree di bisogno?

Altre cose da tenere a mente, secondo la Lalich:

Soprattutto, fidati del tuo giudizio. Se per qualche motivo non ti sentivi al sicuro o sei stato mandato via, questo è sufficiente. Cerca un altro psicologo.
E' bene intervistare diversi terapeuti finché non trovi qualcuno che lavorerà per te. Un terapeuta sano lo capirà e non si offenderà.
Puoi interrompere la terapia ogni volta che vuoi. In ogni momento, hai un pedale dell'acceleratore e un freno. Il tuo terapeuta dovrebbe capirlo e rispettarlo. La terapia è per te, non per il terapeuta.
Qualsiasi terapeuta dovrebbe comprendere le basi delle pratiche etiche, comprese le relazioni non sessuali con i clienti, la cautela su qualsiasi contatto, i confini nelle relazioni e nessuna doppia relazione con i clienti. Tutte queste aree dovrebbero essere discusse apertamente e affrontate in modo sicuro e rispettoso.

Il consumatore responsabile è colui che ha una mentalità critica sulla qualità ed eticità di ciò che acquista. La salute di ciascuno di noi, merita estrema attenzione e molto impegno critico da parte nostra, per cui: siate sempre consumatori attenti e consapevoli!

“I clienti dovrebbero dare retta al suggerimento della scrittrice Charlotte Bronté: <<Guarda bene prima di saltare>>” (dalla chiusa del libro Psicoterapie folli)

La violenza nei media

 Uno studio degli Psicologi Americani ha evidenziato che la violenza in TV e in diversi  Video Game possono procurare effetti dannosi sui minori.
Dalle prime ricerche che l’APA, l’Associazione degli Psicologi Americani,  rende note nel novembre scorso, si evidenziano effetti di destabilizzazione e una potenziale aggressività identiche sia per coloro che sono sottoposti ad immagini violente in TV sia per coloro che usano giocare a videogiochi violenti.
Fin dagli albori della televisione  i genitori, gli insegnanti, i legislatori e i professionisti della salute mentale hanno voluto capire l’impatto dei programmi televisivi in particolare sui bambini.
Particolarmente interessante è stata la rappresentazione della violenza, soprattutto in considerazione del lavoro dello psicologo Albert Bandura, nel 1970, sull’apprendimento sociale e sula tendenza dei bambini a imitare ciò che vedono.
Nel 1969 fu costituito in America un comitato scientifico per la valutazione dell’impatto che la televisione avesse sul comportamento sociale, soprattutto ci si chiedeva quanto incidesse la violenza cui si assisteva, sugli atteggiamenti, valori e comportamenti degli spettatori.
La relazione finale e una relazione di follow-up del 1982 del National Institute of Mental Health hanno identificato questi importanti effetti sui bambini:

1) possono diventare meno sensibili al dolore e alla sofferenza degli altri
2)  possono essere più timorosi del mondo che li circonda
3)  possono essere più propensi a comportarsi in modi aggressivi o pericolosi verso gli altri

Una ricerca di psicologi, tra cui  L. Rowell Huesmann, Leonard Eron e altri, a partire dal 1980 ha evidenziato che i bambini che hanno assistito per molte ore a scene di  violenza in televisione quando erano nella scuola elementare, tendevano a mostrare livelli più elevati di comportamento aggressivo quando diventavano adolescenti. Osservando questi partecipanti in età adulta, Huesmann e Eron hanno scoperto che quelli che avevano guardato un sacco di violenza in TV quando avevano 8 anni avevano più probabilità di essere arrestati e processati per atti criminali da adulti.
Tuttavia, in seguito la ricerca degli psicologi Douglas Gentile e Brad Bushman  ed gli altri  ha evidenziato che l’esposizione alla violenza nei media è solo uno dei numerosi fattori che possono contribuire al comportamento aggressivo.

Altre ricerche hanno trovato che l’esposizione alla violenza nei media può desensibilizzare le persone alla violenza nel mondo reale e,  alcune persone,  considerano addirittua  piacevole la violenza nei media,  che finisce per non comportare più  l’eccitazione ansiosa che ci si aspetterebbe di vedere dinnanzi a questo tipo di immagini.

L’avvento dei videogiochi, d’altronde,  ha sollevato nuove questioni circa l’impatto potenziale di violenza dei media, visto che il giocatore di videogiochi è un partecipante attivo  piuttosto che un semplice spettatore.
Il sette per cento degli adolescenti americani di età 12-17 usa abitualmente i video giochi  su un computer, su console come il Wii , Playstation e Xbox , o su dispositivi portatili come Gameboy , smartphone e tablet .
Molti dei videogiochi più popolari, come “Call of Duty ” e ” Grand Theft Auto” sono violenti, tuttavia, visto che  la tecnologia dei videogiochi è relativamente nuova, ci sono meno studi empirici sulla correlazione della violenza dei videogiochi rispetto ad altre forme di violenza nei media. Eppure diverse recensioni  hanno riportato effetti negativi dell’esposizione alla violenza nei videogiochi.
Nel  2010 una ricerca  dello psicologo Craig A. Anderson e altri, ha concluso che “l’evidenza suggerisce fortemente che l’esposizione a videogiochi violenti è un fattore di rischio causale per un maggiore comportamento aggressivo”.  Anderson in precedenti ricerche ha mostrato che i videogiochi violenti possono aumentare i pensieri di una persona aggressiva , i sentimenti e comportamenti, sia in ambienti di laboratorio che nella vita quotidiana.

Altri ricercatori , tra cui lo psicologo Christopher J. Ferguson , hanno contestato la posizione che la violenza dei videogiochi danneggia i bambini . Nonostante  i suoi studi del  2009 abbiano riportato risultati simili a Anderson, Ferguson sostiene che i risultati di laboratorio non sono traducibili  nel mondo reale in effetti significativi. Egli sostiene inoltre che gran parte della ricerca sulla violenza dei videogiochi non è riuscita a controllare  altre variabili quali la salute mentale e della vita familiare , che possono aver influenzato i risultati. Il suo lavoro ha scoperto che i bambini che sono già a rischio possono essere più propensi a scegliere videogiochi violenti per divertirsi.  Secondo Ferguson  questi altri fattori di rischio, a differenza dei giochi, causano un comportamento aggressivo e violento.

L’American Psychological Association ha avviato un’analisi nel 2013 della ricerca peer-reviewed sull’impatto della violenza nei media e sta riesaminando le sue dichiarazioni programmatiche sull’argomento . Entrambi  dovrebbe essere completati nel 2014.(1)

Che il tema in America sia molto sentito è dimostrato dal fatto che nel 2013 lo stesso Barack Obama, durante una conferenza in ricordo della strage di Newton, abbia annunciato di aver destinato  un “fondo per la ricerca degli effetti dei videogiochi violenti sulle giovani menti“.  “Il nostro primo compito come società è tenere al sicuro i nostri figli.” ha affermato Obama.
In Italia diversi organismi di ricerca, pubblici e privati hanno dedicato attenzione alla tematica. Un’indagine del 2011 dell’Istituto di Ortofonologia di Roma (IdO) condotta su 1.414 studenti della Capitale dai 10 ai 19 anni ha evidenziato che l 75% degli adolescenti italiani gioca ai videogiochi on line e nel 40% dei casi lo fa da solo contro il computer, oppure contro persone conosciute in rete (l’11%).  Interrogandosi  su quanto i videogiochi possano influenzare gli aspetti cognitivi ed emotivi dei minori l’IdO ha evidenziato che essi da una parte  offrono la possibilità di mettere in connessione persone in tutto il mondo, e misurarsi con il concetto di sfida e superamento degli ostacoli, ma dall’altra rischiano di diventare una modalità per isolarsi dalla relazione (2).
Sempre secondo l’IdO i giovani appaiono consapevoli di questi rischi e sanno anche che non tutti i giochi sono positivi per la loro crescita. Di fatto sette studenti su dieci considerano i contenuti dei videogiochi non adatti alla loro età.  Dalla ricerca quindi emerge che i giovani fruitori dei videogiochi sono informati e responsabilizzati e sanno esprimere un giudizio serio sul tema.
Nel frattempo il 7 maggio di quest’anno scienziati, pediatri, clinici e sostenitori della lotta alla violenza si sono riuniti a a Vancouver (Canada), per il meeting annuale Pas-Pediatric Academic Societies, al fine di approfondire l’argomento.  Secondo tali studiosi ‘violenza chiama violenza, anche quando all’aggressività si assiste attraverso lo schermo in un cinema, della tv o di un videogioco” (3).

Certo l’argomento presenta ancora tanti punti da approfondire e tanti interrogativi cui rispondere. Mi piace concludere l’articolo con  il quesito che si pone  di George Carlin (4): “Si fa un gran parlare della violenza in televisione che genera a sua volta violenza nelle strade. Beh!, i programmi comici si sprecano in TV: il che provoca forse un aumento della comicità per le strade?”

Note:

  • (1) http://www.apa.org/research/action/protect.aspx
  • (2) http://www.genitoridemocratici.it/minori-videogiochi-75-usa-quelli-line-e-gioca-solo/
  • (3) http://www.adnkronos.com/IGN/Daily_Life/Benessere/Pediatria-immagini-violente-aumentano-aggressivita-legame-provato_321512409114.html
  • (4) comico, attore e sceneggiatore statunitense.

di Lorita Tinelli

Fonte: Osservatorio di Psicologia nei Media

Comprendiamo l’uso disordinato dell’alcool e il suo trattamento

 Per molte persone bere alcolici non è altro che un modo piacevole per rilassarsi. Le persone con disturbi da uso di alcol, tuttavia, bevono in eccesso, mettendo in pericolo se stessi e gli altri. Questa schema è una  risposta per spiegare i  problemi di alcol e  come gli psicologi possono aiutare le persone a recuperarsi.
Quando non bere diventa un problema?

Per la maggior parte degli adulti l’uso moderato di alcol – non più di due bicchieri al giorno per gli uomini e uno per le donne e le persone anziane – è relativamente innocuo. (A “bere”: l’1,5 oncia [1 oz = 28 grammi circa] di spirito, 5 once di vino, o 12 once di birra, ognuno dei quali contiene 0,5 once di alcool.

L’uso moderato, tuttavia, si trova ad una estremità di una serie che va dall’abuso di alcool alla dipendenza da alcool:

L’abuso di alcool è un modello di consumo che si traduce in conseguenze negative, significative e ricorrenti. Gli alcolisti possono non riuscire a soddisfare i principali obblighi scolastici, di lavoro, o familiari. Possono avere problemi alcool-correlati legali, come ripetuti arresti per guida in stato di ebbrezza. Possono avere problemi di relazione legati al loro bere.

Le persone affette da alcolismo – tecnicamente noto come dipendenza da alcool – hanno perso il controllo affidabile del loro consumo di alcool. Non importa che tipo di alcool essi bevono o anche la quantità: le persone alcool-dipendenti sono spesso incapaci di smettere di bere una volta che iniziano. La dipendenza da alcool è caratterizzata dalla tolleranza (necessità di bere di più per ottenere lo stesso “livello elevato”) e dai sintomi di astinenza quando si smette improvvisamente di bere. I sintomi da astinenza possono includere nausea, sudorazione, irrequietezza, irritabilità, tremori, allucinazioni e convulsioni.

Nonostante i gravi problemi di alcool che coinvolgono il grande pubblico, vi sono anche lievi a moderati problemi che possono causare danni sostanziali alle persone, alle loro famiglie e alla comunità.

Secondo l’Istituto nazionale sull’abuso di alcool e sull’alcolismo (NIAAA), 1 su 12 adulti americani è un abusante di alcol o alcoolista. (1( E, sostiene la NIAAA, i giovani adulti di età compresa tra 18 e 29 sono ad alto rischio di alcolismo. Ad esempio, un sondaggio del governo ha rivelato che quasi l’8 per cento dei giovani di età compresa tra 12 a 17 e quasi il 41 per cento dei giovani adulti di età compresa tra 18 a 25 abusano in binge drinking – abbattendo cinque o più bevande nella stessa occasione almeno una volta durante il mese passato (2).
Che cosa causa i disturbi alcool-correlati?

Il problema con l’alcool presenta molteplici cause, tra fattori genetici, fisiologici, psicologici, sociali che giocano tutti un ruolo. Non tutti gli individui sono ugualmente influenzati da ogni causa. Per alcuni alcoolisti, tratti psicologici, come l’impulsività, la bassa autostima e la necessità di approvazione tempestiva causano l’assunzione di alcool. Alcune persone bevono per far fronte o “risolvere” problemi emotivi. Fattori sociali e ambientali come la pressione dei pari e la facile disponibilità di alcool possono svolgere un ruolo chiave. La povertà fisica o gli abusi sessuali aumentano anche le probabilità di sviluppare dipendenza da alcool.

Fattori genetici rendono alcune persone particolarmente vulnerabili alla dipendenza da alcool. Contrariamente al mito, essere in grado di “reggere il vostro liquore” significa che probabilmente siete più a rischio – non meno – per problemi di alcool. Eppure, una storia familiare di problemi di alcool non significa che i bambini cresceranno automaticamente fino ad avere gli stessi problemi. Né l’assenza di problemi di alcolismo familiari necessariamente proteggono i bambini dallo sviluppo di questi problemi.

Una volta che la gente comincia a bere eccessivamente, il problema può perpetuarsi. Bere pesantemente può causare cambiamenti fisiologici che rendono più bere l’unico modo per evitare disagi. Gli individui con dipendenza da alcool possono bere in parte per ridurre o evitare i sintomi di astinenza.

 

Come i disturbi da uso di alcool colpiscono le persone?

Mentre alcune ricerche suggeriscono che piccole quantità di alcol possono avere effetti cardiovascolari benefici, vi è un ampio accordo che bere pesante può portare a problemi di salute.

Effetti a breve termine essi includono perdita di memoria, postumi di una sbornia, e blackout. I Problemi a lungo termine associati con pesanti bevute comprendono disturbi di stomaco, problemi cardiaci, cancro, danni cerebrali, grave perdita di memoria e la cirrosi epatica. I bevitori pesanti aumentano anche notevolmente  le loro probabilità di morire a causa di incidenti automobilistici, omicidi e suicidi. Anche se gli uomini hanno molta più probabilità rispetto alle donne di sviluppare l’alcoolismo, la salute delle donne soffre di più, anche a bassi livelli di consumo.

I problemi di alcoolismo hanno anche un impatto molto negativo sulla salute mentale. L’abuso di alcool e l’alcolismo possono peggiorare le condizioni esistenti, come la depressione, o indurre nuovi problemi come la grave perdita di memoria, depressione o ansia.

I problemi di alcool non solo danneggiano il bevitore. I coniugi e i figli di forti bevitori possono affrontare la violenza familiare; i bambini possono subire abusi fisici e sessuali e di abbandono e  sviluppare problemi psicologici. Le donne che bevono durante la gravidanza corrono un serio rischio di danneggiare i loro feti. Parenti, amici e sconosciuti possono essere feriti o uccisi in incidenti e aggressioni alcool-correlati.

 

Quando si dovrebbe cercare aiuto?

Gli individui spesso nascondono di bere o negare di avere un problema. Come si può sapere se tu o qualcuno che conosci siete in difficoltà?

I segni di un possibile problema includono l’avere amici o parenti che esprimono preoccupazione, essendo infastiditi dal tuo bere, e tu ti senti in colpa per il tuo bere e pensi che dovresti ridurlo ma non riesci a farlo, o che necessiti di una bevanda al mattino per calmare i nervi o alleviare una sbornia.

Alcune persone con problemi di alcolismo lavorano duramente per risolverli. Con il sostegno di familiari o amici, questi individui sono spesso in grado di recuperare da soli. Tuttavia, quelli con dipendenza da alcool di solito non possono smettere di bere attraverso la sola forza di volontà. Molti hanno bisogno di un aiuto esterno. Possono avere bisogno di disintossicazione sotto controllo medico, per evitare i sintomi di astinenza potenzialmente pericolosi per la vita, come le convulsioni. Una volta che le persone sono stabilizzate è allora che potrebbe avere bisogno di un aiuto per risolvere i problemi psicologici associati con il problema di bere.

Ci sono diversi approcci disponibili per il trattamento di problemi di alcol. Nessuna soluzione è la migliore per tutti gli individui.
Come può aiutare uno psicologo?

Gli psicologi che sono addestrati e hanno esperienza nel trattamento di problemi di alcool possono essere di aiuto in molti modi. Prima che il bevitore cerchi assistenza, uno psicologo può guidare la famiglia o gli altri nel contribuire ad aumentare la motivazione di cambiare del bevitore. 

Uno psicologo può iniziare con il bevitore valutando i diversi tipi e gradi di problemi che il bevitore ha vissuto. I risultati della valutazione sono in grado di offrire una guida iniziale per il bevitore di ciò che sarà il trattamento e per cercare  a motivarne  il trattamento. Gli individui con problemi di alcolismo migliorare le loro possibilità di recupero cercando aiuto in anticipo.

Utilizzando uno o più dei diversi tipi di terapie psicologiche, gli psicologi possono aiutare le persone a risolvere problemi psicologici coinvolti nel loro problema con l’alcool. Un certo numero di queste terapie, compreso il trattamento e la capacità di coping cognitivo-comportamentale e la terapia di potenziamento motivazionale, sono stati sviluppati dagli psicologi. Le terapie supplementari includono approcci di agevolazione dei 12-Step che aiutano le persone con problemi di alcolismo, utilizzando programmi di auto-aiuto, come gli Alcolisti Anonimi (AA).

Queste terapie possono aiutare le persone ad aumentare la propria motivazione a smettere di bere, ad individuare circostanze che attivano il bere, ad imparare nuovi metodi per far fronte a situazioni di consumo ad alto rischio, e a sviluppare sistemi di supporto sociale all’interno delle proprie comunità.

Tutti e tre queste terapie hanno dimostrato la loro efficacia. Una analisi di approccio cognitivo-comportamentale, per esempio, ha trovato che il 58 per cento dei pazienti che ricevono un trattamento cognitivo-comportamentale risove meglio di quelli in confronto in gruppi (3). In un altro studio, interventi motivazionali riducono gli effetti delle emergenze degli adolescenti che bevuto più di altri trattamenti (4) e un intervento chiamato Rendere Alcolisti Anonimi aumenta significativamente più facilmente la probabilità di partecipanti da astenersi dall’alcool (5).  Molti individui con problemi di alcool soffrono di altre condizioni di salute mentale, come ansia e depressione grave, allo stesso tempo. Gli psicologi possono anche diagnosticare e trattare queste condizioni psicologiche “concomitanti”. Inoltre, uno psicologo può svolgere un ruolo importante nel coordinare i servizi di un bevitore nel trattamento riceve da vari professionisti della salute.

Gli psicologi possono anche fornire aiuto ai coniugi, ai familiari ed anche terapie di gruppo, che spesso sono utili per riparare le relazioni interpersonali e per risolvere il problema del bere a lungo termine. Le relazioni familiari influenzano il comportamento di bere, e questi rapporti spesso cambiano durante il recupero di un individuo. Lo psicologo può aiutare il bevitore e altri suoi significativi rapporti ad affrontare queste transizioni complesse, ad aiutare le famiglie a capire il problema del bere e ad imparare come sostenere i membri della famiglia nel recupero, e si riferiscono ai familiari di gruppi di auto-aiuto come Al-Anon e Alateen.

Perché una persona possa evitare  uno o più comportamenti recidivi e tornare al problema di bere, può essere fondamentale  avere uno psicologo di fiducia o altro professionista sanitario con il quale tale persona può discutere e imparare da questi eventi. Se il bevitore non è in grado di risolvere completamente i problemi di alcool, uno psicologo può aiutare a ridurre l’uso di alcol e ridurre al minimo i problemi.

Gli psicologi possono anche fornire riferimenti a gruppi di auto-aiuto. Anche dopo la fine formale di trattamento, molte persone cercano un sostegno aggiuntivo attraverso il continuo coinvolgimento in tali gruppi.

Disturbi alcool-correlati compromettono gravemente il funzionamento e la salute. Ma le prospettive di successo e la risoluzione dei problemi a lungo termine sono buone per le persone che cercano aiuto da fonti appropriate.
L’American Psychological Association riconosce con gratitudine l’aiuto di Peter E. Nathan, PhD, John Wallace, PhD, Joan Zweben, PhD, e A. Thomas Horvath, dottorato di ricerca, nello sviluppo di questa scheda.

 

Bibliografia

1 National Institute on Alcohol Abuse and Alcoholism. (2007). “FAQs for the general public.”

2 Substance Abuse and Mental Health Services Administration. (2011). “Results from the 2010 National Survey on Drug Use and Health: Summary of national findings.” NSDUH Series H-41, HHS Publication No. (SMA) 11-4658.

3 Magill, M., & Ray, L.A. (2009). “Cognitive-behavioral treatment with adult alcohol and illicit drug users: A meta-analysis of randomized controlled trials.” Journal of Studies on Alcohol and Drugs, 70 (4): 516-527.

4 Spirito, A., Sindelar-Manning, H., Colby, S.M., Barnett, N.P., Lewander, W., Rohsenow, D.J., & et al. (2011). “Individual and family motivational interventions for alcohol-positive adolescents treated in an emergency department.” Archives of Pediatrics and Adolescent Medicine, 165 (3): 269-274.

5 Kaskutas, L.A., Subbaraman, M.S., Witbrodt, J., & Zemore, S.E. (2009). “Effectiveness of Making Alcoholics Anonymous Easier: A group format 12-step facilitation approach.” Journal of Substance Abuse Treatment, 37 (3): 228-239.

Updated March 2012

 

Fonte: APA.org

 

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Traduzione di Lorita Tinelli (Affiliata Internazionale APA)

Avvertenza: Questa traduzione non è stata realizzata da traduttori professionisti, pertanto ci scusiamo per eventuali errori.

Gli articoli apparsi su questo blog possono essere riprodotti liberamente, sia in formato elettronico che su carta, a condizione che non si cambi nulla e  che si specifichi la fonte

Siamo tutti diversi

SEGNALAZIONE

 

Negli ultimi mesi, anche a seguito a fatti di cronaca, si è aperto un dibattito, che spesso ha assunto anche toni vivaci, sulla legge sulla omofobia e sulla cura agli omosessuali. Di seguito segnalo alcuni articoli che mi hanno fatto riflettere su quanto spinoso sia l’argomento anche tra studiosi.

http://www.lanuovabq.it/it/articoli-chiara-atzori-quante-bugiesu-gay-e-terapie-riparative-7662.htm

http://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=2914

http://www.lanuovabq.it/it/articoli-omofobia-psicologi-costretti-al-silenzio-7155.htm

Che ne pensate?

Lettera firmata

 

COMMENTO REDAZIONALE DI LORITA TINELLI

 

..«Dovevo chiedere scusa alla comunità gay per i miei studi che sostengono tesi fasulle sull’efficacia delle terapie riparatorie», incalza, «e voglio anche chiedere scusa a tutte le persone gay che hanno perso tempo ed energia sottoponendosi per colpa mia a tali inutili terapie».

Robert Spitzer, MD

 

 

Come evidenzia la segnalazione giunta al nostro Osservatorio, ultimamente il dibattito sull’omosessualità è divenuto sempre più  acceso e serrato, tanto da richiedere addirittura la necessità di una legge sull’omofobia.

Che nel 2014 l’informazione riguardante l’omosessualità sia ancora confusa e pregna di pregiudizi, lo si evince dall’emblematica pubblica confessione  fatta dall’Onorevole Giovanardi nel salotto di Porta a Porta nel gennaio scorso. Egli racconta di essere finito all’ospedale per la frase proferita da sua figlia: “Papà sto con un rasta, di colore e forse gay”.

I brutti fatti di cronaca degli ultimi mesi, hanno rimarcato il clima di pregiudizio e di profonda intolleranza nei confronti di una diversità di difficile metabolizzazione e che provoca profonda sofferenza nei soggetti interessati.

Simone, 21 anni che si lancia dall’undicesimo piano di un ex pastificio dopo aver lasciato uno scritto “L’Italia è omofoba”, tanto per fare un esempio.  Oppure Roberto, 14 anni, che si butta dal tetto dopo aver lasciato una lettera in cui rivelava di essere gay.

La Presidenza del Consiglio dei Ministri, attraverso l’Ufficio nazionale antidiscriminiazioni razziali (Unar), ha pensato bene di progettare degli interventi educativi e di sensibilizzazione da realizzare nelle scuole di ogni ordine e grado, al fine di fornire utili strumenti a tutti i principali attori della stessa. Si tratta di percorsi di educazione socio-affettiva e di prevenzione del bullismo sulle tematiche dell’orientamento sessuale. L’intero progetto è racchiuso in tre opuscoli intitolati “Educare alla diversità a scuola”, oppurtunamente elaborati su commissione dall’istituto A.T. Beck per la terapia cognitivo-comportamentale, ed è volto ad offrire strategie concrete per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere.

Tale progetto non è piaciuto ad un avvocato di Varese, Gianfranco Amato,  collaboratore della Curia Diocesana di Grosseto, il quale ha prontamente diffidato il Governo a ritirarlo, Secondo l’Avvocato Amato il progetto di sensibilizzazione non va bene non solo perchè sarebbe gestito dal  Gruppo nazionale di lavoro Lgbt  «formato da 29 associazioni tutte e solo di quella sponda, come Arcigay, Arcilesbica e Movimento identità transessuale», ma anche perché sarebbe stato  creato un osservatorio di polizia, che a suo dire  “metterebbe in riga gli omofobi (http://www.ilgiornale.it/news/interni/mi-denuncio-sono-omofobo-e-pronto-ad-andare-galera-992845.html). In realtà si tratta dell’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori (OSCAD) istituito allo scopo di agevolare le vittime di reati a sfondo discriminatorio (hate crimes o crimini d’odio), nel concreto godimento del diritto all’uguaglianza dinanzi alla legge ed alla protezione contro le discrimimaznioni (http://www.poliziadistato.it/articolo/22017/)

Seppur sinteticamente si sono qui evidenziati quegli atteggiamenti che impediscono il l’instaurarsi di un vero cambiamento cognitivo e sociale, che porterebbe a non ricadere nella trappola della visione unilaterale e quindi ad aprirsi alla ricchezza e al rispetto dell’altro. Ciò significa che bisognerebbe parlarne ancora, per poter affrontare l’argomento in maniera quanto più chiara e corretta possibile. E soprattutto con l’ausilio di professionisti aperti e realmente intenzionati a offrire contributi validi alla scienza, ma anche ad alleviare le sofferenze dell’animo umano.

 

 

parere_expPARERE DELLA DOTT.SSA PAOLA BIONDI

 

Mi è stato chiesto di commentare tre articoli pubblicati su siti di matrice cattolica tra agosto e novembre 2013.

Tutti e tre parlano di terapie riparative e della possibilità paventata, ma non dimostrata, di poter modificare un orientamento sessuale e affettivo omodiretto.

I fatti

Il 20 agosto 2013 l’Avv. Giancarlo Cerrelli, vicepresidente dell’Unione Giuristi  Cattolici Italiani (condizione che potrebbe suscitare qualche perplessità sulla sua capacità di restare neutrale sui temi trattati, esattamente come si contesta a persone vicine ad associazioni lgbt o partiti come quello di Vendola) è ospite della trasmissione “Unomattina Estate” e discute sulla possibilità che una legge contro l’omofobia possa impedire la “libera espressione” delle proprie idee.

In seguito alle sue dichiarazioni in studio c’è stata una mobilitazione da parte di alcune associazioni e attivisti per i diritti delle persone omosessuali/transessuali con la richiesta alla Commissione di Vigilanza Rai di monitorare personaggi e discorsi potenzialmente discriminatori nei loro confronti.

Il presidente del Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi, Luigi Palma, ha condannato fermamente queste posizioni a sostegno delle terapie riparative in quanto non fondate scientificamente e invitando nuovamente gli psicologi e le psicologhe italiane al rispetto del codice deontologico.

Gli articoli

Negli articoli che mi sono stati proposti si passa dalla difesa a spada tratta della dott.ssa Aztori, infettivologa a parere dell’autore accusata ingiustamente da attivisti lgbt,  alla lettera di difesa dell’avv. Cerelli da parte di un presunto psicologo italiano. Costretto a non firmarsi per evitare l’espulsione dal suo ordine di appartenenza. Insomma partiamo proprio dalla fantascienza e dalle fantasie molto fervide di qualcuno.

La dott.ssa Aztori è infettivologa presso l’ospedale Sacco di Milano. Non si capisce quindi perché relazioni (come dice l’articolo) in convegni sull’omosessualità e sulle terapie riparative non avendone né competenze né qualifiche per farlo.

Nell’articolo si parla anche di Joseph Nicolosi, uno dei padri delle terapie di riconversione sottolineando come sia ancora un membro dell’APA, che l’autore traduce come American Psychiatric Association ignorando evidentemente che Nicolosi è uno psicologo e NON uno psichiatra.

L’APA a cui apparteniamo entrambi (Nicolosi e io) è invece l’American Psychological Association composta da circa 134.000 psicologi di tutto il mondo. E’ la stessa APA che nell’agosto del 2009 ha pubblicato il Report sui SOCE (Sexual Orientation Change Efforts) dichiarando con fermezza e senza ombra di dubbio che:

–         E’ necessario distinguere orientamento sessuale (e affettivo) da identità di orientamento sessuale.

–         Non ci sono evidenze scientifiche della possibilità di modificare l’orientamento sessuale.

–         Le terapie che hanno come obiettivo il cambiamento dell’orientamento sessuale sono inefficaci, spesso dannose e laddove ci siano stati vantaggi questi sarebbero stati possibili anche con altre forme di terapie che non condividono lo stesso obiettivo di base. Cioè che non pretendono di modificare l’orientamento sessuale.

Negli articoli, inoltre, si parla di ideologia omosessualista, termine ignoto alla comunità professionale e scientifica internazionale che da decenni studia l’identità sessuale, ma  spesso presente in comunicazioni, post, commenti sui social di persone che condividono un’altra ideologia: quella cattolica.

Nella lettera del presunto psicologo costretto suo malgrado all’anonimato ci sono diverse inesattezze.

La scelta di non firmare con il proprio nome e cognome rende privo di valenza “scientifica” anche il contenuto del testo, nel senso che potrebbe essere stato scritto da chiunque e se così fosse non potrebbe essere considerato frutto di un professionista, magari competente in materia.

Resta quindi solo una lettera scritta da chiunque, che conosce solo una parte della letteratura scientifica in merito e soprattutto del codice deontologico citato.

Si citano studi scientifici strabilianti che validerebbero l’ipotesi della possibilità di modificare l’orientamento sessuale come se fossero la bibbia. In particolare quello di Spitzer è stato disconfermato dallo stesso autore nel 2012, che ha ammesso che il campione utilizzato per lo studio non era adeguato né rappresentativo, che il metodo utilizzato non era corretto e ha chiesto pubblicamente scusa alle persone omosessuali che hanno sofferto inutilmente in questi anni perché convinti di poter cambiare la propria condizione, proprio sulla base del suo famoso studio.

Ad oggi gli studi che parlano di re-orientamento sessuale pongono l’attenzione sulla modifica del comportamento sessuale di persone in realtà bisessuali (prima dello studio avevano avuto ad es. relazioni anche con donne) convalidando il presunto successo della terapia con il suggellamento di un matrimonio, magari con figli. Ma in molti casi si tratta di matrimoni bianchi (senza rapporti sessuali) o di persone che, se intervistate, dichiarano che in realtà il loro desiderio omosessuale è ancora vivo e presente, ma che hanno semplicemente scelto di non viverlo adattandosi ad una vita eterosessuale che l’intera società (e la comunità a cui appartengono, spesso molto religiosa) approva e sostiene.

Appare strano che, nell’ipotesi che l’orientamento sessuale sia modificabile da psicoterapia o pseudoterapie, nessuna persona eterosessuale sia a disagio e desideri modificare il proprio diventando omosessuale. E questo considerando che l’eterosessualità è l’orientamento più comune, decisamente considerato accettabile e molte società siano eterosessiste. Si parla, infatti, sempre e solo di orientamento omosessuale come disturbante, come invalidante, come indesiderato e come MODIFICABILE.

Sarebbe più corretto, a mio avviso, invece, parlare di orientamento sessuale e affettivo a tutto tondo. Altrimenti si rischia di cadere nella favola dell’omosessuale egodistonico, il cui futuro appare inevitabilmente e inderogabilmente buio e triste, che aspira ad un’eterosessualità felice e perfetta da mulino bianco. Che sappiamo bene essere inesistente e idealizzata, mentre esistono moltissime esperienze di omosessualità felici , consapevoli, serene e soprattutto fertili e prolifiche.

Insomma non è l’omosessualità di per sé che rende infelici né l’eterosessualità di per sèche garantisce una vita felice e soddisfacente, ma sicuramente più facile e forse più “comoda”.

Nello stesso articolo che ospita la lettera del presunto collega si cita l’articolo 4 del Codice Deontologico che impone alle psicologhe e agli psicologi italiani il rispetto dell’autoaffermazione del cliente.

Vorrei chiedere al presunto collega se questo articolo, a suo parere, vale anche per le pazienti anoressiche che arrivano in studio chiedendo a  lui/lei di essere aiutate a perdere altri 20kg o ai pazienti che chiedono sostegno perché desiderano ardentemente avere un’intimità con bambini di 5 anni.

Non è anche in questi casi obbligo del/la professionista di rispettare l’autoaffermazione del paziente stesso?

Mi sembra opportuno ricordare, invece, la necessità di rispettare l’articolo 5 del Codice Deontologico :

Lo psicologo è tenuto a mantenere un livello adeguato di preparazione e aggiornamento professionale, con particolare riguardo ai settori nei quali opera. La violazione dell’obbligo di formazione continua, determina un illecito disciplinare che è sanzionato sulla base di quanto stabilito dall’ordinamento professionale.

Riconosce i limiti della propria competenza e usa, pertanto solo strumenti teorico-pratici per i quali ha acquisito adeguata competenza e, ove necessario, formale autorizzazione. Lo psicologo impiega metodologie delle quali è in grado di indicare le fonti e riferimenti scientifici, e non suscita, nelle attese del cliente e/o utente, aspettative infondate.”

Concludendo, appare necessario evitare commistioni tra credenze e valori religiosi, assolutamente rispettabili , ma privi di scientificità e alcuni concetti e costrutti validati dalla comunità scientifica internazionale, sia perché i primi riguardano una parte della popolazione e non la totalità, sia perché non possono essere questi a determinare la validità di teorie scientifiche.

Ma soprattutto perché da psicologi l’unico obiettivo che dovremmo avere è la salute psicofisica dei nostri clienti e di sicuro propinare soluzioni inattuabili e illusorie rappresenta un danno maggiore del disagio per un orientamento sessuale e affettivo non eterosessuale per il quale si temono discriminazioni e ripercussioni nell’ambiente in cui si vive.

Fonte: Osservatorio di Psicologia nei media

Psicologi o Abusologi?

SEGNALAZIONE

Carissimi colleghi,

mi è capitato di leggere stamattina il seguente articolo che si presenta come interrogazione parlamentare presentata contro  psicologi e psichiatri che si occupano nei tribunali di valutazione del danno di presunte vittime di pedofili. Colui che ha presentato l’interrogazione sostiene che tali figure professionali non solo non siano competenti per tale valutazione, ma aggiunge che  non siano capaci di apportare dati oggettivi, come farebbe invece la criminologia, ma solo dati interpretativi e quindi fallaci.

 

LINK ORIGINALE

http://www.abusologi.com/69

COMMENTO REDAZIONALE A CURA DELLE DR.SSE LORITA TINELLI E SIMONA RUFFINI

La segnalazione ricevuta ci dà la possibilità di chiarire alcuni punti estremamente importanti (dato soprattutto il campo di applicazione che è quello dell’abuso al minore) relativi a quello che è (o dovrebbe essere) il ruolo dell’esperto psicologo chiamato come consulente o perito. Nell’interrogazione parlamentare segnalata infatti riscontriamo alcune inesattezze proprio relativamente al ruolo delle figure professionali coinvolte e al loro delicatissimo compito.

La prima di queste gravi inesattezze è rappresentata, nell’interrogazione citata, dall’espressione “sempre più fatti di recente cronaca giudiziaria dimostrano come Giudici e pubblici Ministeri fanno sempre più affidamento alle opinioni, perizie e conclusioni di psicologi e psichiatri con l’assunto che grazie alla loro conoscenza sia possibile determinare la colpevolezza o l’innocenza di una persona”. Ci preme infatti precisare che la possibile dimostrazione di colpevolezza è affidata esclusivamente alle prove scaturite dall’attività di investigazione giudiziaria, non certo alle perizie. Inoltre va fatta una sostanziale distinzione tra perizia psichiatrica e perizia psicologica. La perizia psichiatrica infatti viene richiesta allo psichiatra (naturalmente) ed è utilizzata per dimostrare ad esempio una eventuale infermità o seminfermità di mente piuttosto che la compatibilità col sistema carcerario. La perizia psicologica invece non esiste affatto (sull’adulto) essendo espressamente vietata dall’articolo 220 del nostro codice di procedura penale: “Salvo quanto previsto ai fini dell’esecuzione della pena o della misura di sicurezza, non sono ammesse perizie per stabilire l’abitualità o la professionalità nel reato, la tendenza a delinquere, il carattere e la personalità dell’imputato e in genere le qualità psichiche indipendenti da cause patologiche[1]”.

La perizia psicologica invocata nell’interrogazione dunque non può che essere quella richiesta nei casi di presunto abuso non per dimostrare la colpevolezza di chicchessia (non esiste un test di alcun tipo che potrebbe farlo) ma solo e soltanto per la valutazione dell’attendibilità del minore che racconta i fatti.

Questo punto va chiarito con forza poiché altrimenti si diffonderebbe una pericolosa credenza in qualche tipo di potere magico affidato agli psicologi che è ciò che trapela dalle giuste preoccupazioni espresse nell’interrogazione.

L’altra grave inesattezza riscontrata nell’interrogazione è rappresentata dalla seguente frase: “lo stesso sistema, cioè l’uso di perizie psicologiche e psichiatriche usate a quel che consta all’interpellante come uniche prove…”.  Pur accogliendo con molto interesse qualunque critica mossa nell’esclusivo interesse dei minori non possiamo trascurare gli errori sostanziali contenuti in questa interrogazione.  Secondo l’articolo 187 del nostro codice di procedura penale (che chi si occupa di psicologia giuridica e chi critica lo psicologo giuridico deve conoscere), la prova è l’insieme dei fatti che: “si riferiscono all’imputazione, alla punibilità e alla determinazione della pena o della misura di sicurezza [2]”. Le prove soprattutto si formano in dibattimento. Questo vuol dire nella pratica che tutto quanto raccolto nella fase di indagini deve essere “validato” in aula. La perizia (o sarebbe meglio definirla consulenza tecnica per non creare confusione con il lavoro dello psichiatra) è una cosa ancora a parte, non solo perché il giudice potrebbe teoricamente non tenerne conto (seppure nella pratica i consulenti vengono interpellati proprio per aiutare il giudice nel suo libero convincimento) ma soprattutto perché la consulenza non è una prova! Vero è senza dubbio che a volte la notorietà mediatica dei consulenti nominati dilaga a discapito della controparte, ma certamente la consulenza è un aiuto per il giudice, non certamente una prova della quale egli debba tener conto.

L’altro punto saliente dell’interrogazione riguarda la professionalità degli esperti chiamati in causa. Anche qui riscontriamo alcune generalizzazioni che nuocciono al discorso.  La frase in questione è la seguente: “mentre in Italia è chiaro a tutti che per opere d’ingegneria occorre l’ingegnere, non lo è, invece, per la criminologia; posto che ad occuparsi di crimini non è il criminologo clinico…ma lo psicologo, lo psichiatra, l’assistente sociale, eccetera”. Purtroppo a causa della sovraesposizione a telefilm di ogni sorta o a sedicenti criminologi che impazzano anche nel nostro paese,  occorre anche qui fare una chiara e netta distinzione tra le figure professionali chiamate in causa.  Lo psicologo non si occupa di crimini, si occupa di psicologia, lo psichiatra non si occupa di crimini ma di medicina, il sociologo potrebbe occuparsi di crimini nel caso in cui effettuasse un’analisi appunto sociologica del fenomeno ma non ci risulta che ad un sociologo venga affidata una consulenza tecnica attraverso la quale dimostrare l’attendibilità di un minore. Il criminologo di cosa si occupa? Ecco, forse questo è il nocciolo della questione. Su questo accogliamo in pieno la perplessità espressa nell’interrogazione, non certo riferita allo psicologo serio, esperto, preparato, ma verso tutte quelle figure ibride che hanno specializzazioni inesistenti o inutili. Questo perchè un criminologo (qualunque cosa voglia dire) non entra in tribunale a verificare l’attendibilità della testimonianza di un bambino se non è uno psicologo serio, preparato, formato. Dunque semmai l’attenzione andrebbe posta alle competenze dello psicologo specificamente formato in questo campo e in collaborazione con lo psichiatra, uniche figure deontologicamente e professionalmente preposte.  A tale proposito i suddetti hanno come guida delle linee emanate dai propri ordini di riferimento in materia, alle quali si appellano e che li indirizzano proprio nel delicatissimo campo dell’abuso al minore.  Più che invocare il criminologo (poiché a tutt’oggi tale figura non esiste nemmeno professionalmente) sarebbe meglio (per il minore stesso) verificare e rafforzare le competenze degli psicologi che già fanno, nella maggior parte dei casi egregiamente, tale lavoro. Perché nei casi di presunto abuso ai minori il consulente non si occupa del criminale o del crimine, ma della vittima. E lo psicologo (se preparato), così come lo psichiatra, sono sicuramente più che adeguati.

 

PARERE A CURA DEL PROF. SAVERIO ABRUZZESE

Premessa: tutte le indagini epidemiologiche hanno accertato che sul tema degli abusi sessuali c’è un’impressionante diffusione del fenomeno, una disarmante scarsità di denunce ed una sconfortante esiguità delle condanne.

Davanti ad un fenomeno così sommerso dobbiamo porci alcune inquietanti domande: di fronte alla necessità di alzare il tiro contro la violenza sui minori è più accettabile correre il rischio che un adulto innocente venga condannato o che un minore vittima non venga creduto? È una domanda scomoda, anche perché fa riferimento ad una logica guerrafondaia in cui si usa fare previsioni sulle vittime di un conflitto. Ma questo clima si avverte. Inutile soffermarci sul fatto che un innocente non dovrebbe essere condannato e che un minore non dovrebbe essere ritenuto a priori attendibile, ma la verità è che le armi a disposizione dell’imputato sono molte di più di quelle di una vittima bambino. È una lotta impari e noi abbiamo il dovere – o per lo meno dovremmo sentirlo – di aiutare e sostenere il più debole. Questo non significa perdere la neutralità o schierarsi. Ma sappiamo benissimo come le verità processuali siano più difficilmente dimostrabili delle verità cliniche. E vorrei anche uscire al più presto da questa logica militaresca, perché non è edificante parlare di una guerra di adulti contro bambini. Gli avvocati degli abusanti per contratto devono difendere i loro clienti, ma ci sarà un modo per farlo senza ritenere i bambini irrimediabilmente inattendibili, fantasiosi, bugiardi, etc.

Se continuiamo ancora a vivere in questo clima di contrapposizione fra operatori del diritto schierati dalla parte degli adulti e operatori psicosociali schierati dalla parte dei bambini non cresceremo. Né noi, né loro.

Probabilmente non abbiamo ancora metabolizzato la violenza e abbiamo qualche difficoltà a fondare la cultura dell’antiviolenza. Abbiamo bisogno di continuare a parlarne e confrontarci, per evitare di inciampare nella pietra dello scandalo.

Una certa cautela è necessaria, non lo metto in dubbio, in considerazione del fatto che c’è un aumento di false denunce e di strumentalizzazioni della violenza sessuale nei procedimenti di separazione, ma la cautela non deve trasformarsi in omertà.

Abbiamo acquisito che gli indicatori dell’abuso sono aspecifici, ma la contemporanea comparsa di più fattori dovrebbe insospettire: la distrazione a scuola, le difficoltà di apprendimento, l’isolamento, una condotta erotizzata precoce, segni fisici inequivocabili, comportamenti bizzarri, compiti in classe o letterine alle insegnanti, etc.

L’Unione delle Camere Penali, invocando i principi del giusto processo, insiste sulla necessità della videoregistrazione integrale delle dichiarazioni del minore fin dalle fasi iniziali dell’indagine e sulla opportunità dell’esame e controesame del minore, comunque tutelandolo, ma assicurando anche i diritti dell’imputato. La verità è che non si tutela un minore costringendolo a ripetere la stessa storia, a rivivere il trauma subito. Una bambina costretta a ripetere sempre la stessa storia può iniziare a dubitare di non essere creduta e quindi rifiutarsi di parlare. Gli avvocati non aspettano altro. Ma questa non è una ritrattazione. È un’ulteriore forma di violenza sulla vittima.

La quale deve anche subire i tempi del processo, in cui si garantiscono i diritti dell’imputato, ma non alla stesso modo quelli della vittima. Più volte mi è capitato di attendere che il procedimento penale a carico dell’abusante si definisse per poter ascoltare il minore in merito ad interventi civili di protezione e tutela.

L’AIMMF (Associazione Italiana dei Magistrati per i Minorenni e per la Famiglia), in un documento [3] datato 8/3/2008, ha riaffermato decisamente che “gli interventi di cura, psicologici ed educativi, non possono essere né rinviati né subordinati in relazione ai tempi del processo penale, ad esigenze di segretezza e alle garanzie dell’indagato o imputato già previste dalla legge; curare un bambino che sta male non può mai ledere diritti altrui”.

In merito all’audizione protetta del minore, lo stesso documento afferma che “l’ascolto del minore vittima in ogni sede, compresa quella giudiziaria, non può che essere condotto con modalità empatiche adeguate alle sue modalità espressive e di verbalizzazione; egli va ascoltato tenendo conto delle sue possibilità e capacità di racconto. Il documento fa anche riferimento alla necessità che il minore-vittima sia sempre seguito nei percorsi giudiziari civile e penale da un’unica figura di accompagnamento nella persona del curatore speciale “che non lo lasci solo; lo informi, lo conduca e accompagni al processo, gli nomini se del caso un difensore specializzato” ed infine auspica che i magistrati che si occupano di questa materia siano adeguatamente preparati e formati.

In definitiva abbiamo da un lato alcuni professionisti seriamente interessati alla tutela del minore, decisamente impegnati nell’impedire alla vittima una vittimizzazione secondaria, che è quella degli ascolti ripetuti e della violenza della macchina giudiziaria; ci sono poi altri professionisti che utilizzano i loro saperi per mettere in dubbio la credibilità di una bambina abusata, spiegando ai magistrati che le risposte date ad un test proiettivo non costituiscono una prova, anche perché sono confutabili. In questa polemica fra specialisti delle scienze umane si inseriscono volentieri gli avvocati; per il momento ci sono i penalisti che hanno tutto l’interesse nell’invalidare le dichiarazioni di un minore vittima, ma è prevedibile che fra un po’ anche i curatori speciali faranno sentire la loro voce per schierarsi, presumibilmente, dalla parte del minore vittima e testimone.

Non vorrei correre il rischio di apparire fazioso. Mi sembra inevitabile che gli avvocati difendano il loro cliente, ma non si può dire che questa diritto alla difesa si fondi sull’interesse del minore. Il giusto processo non può trasformarsi in un’altra violenza sui minori.

E non trascuriamo – infine – un altro conflitto spesso presente sui nostri giornali: la destra chiede pene più severe, ronde cittadine, maggiore sicurezza, etc.; la sinistra chiede una maggiore attenzione all’educazione all’affettività, una maggiore prevenzione, la rieducazione del reo. Le richieste non sono incompatibili, al contrario “devono” diventare compatibili. La sicurezza dei cittadini e dei bambini in particolare, non può essere oggetto di polemiche. È impensabile che la destra risulti più attenta ai bisogni del cittadino, mentre le sinistra a quelli dei delinquenti. Non ha senso. Sono molto preoccupato che l’attività delle ronde per strada possano trasformarsi in giustizia privata. Sono stufo di questa abitudine, tutta italiana, di polarizzare il dibattito sui temi dell’antiviolenza.

Alcuni operatori psicosociali si impegnano nel dimostrare che un minore è inattendibile, altri prendono per oro colato tutto quello che esce dalla bocca di un bambino. Alcuni vorrebbero l’inasprimento delle pene e la giustizia fai da te, altri sostengono che solo con un trattamento sull’abusante si evitano i rischi della recidiva.

Perché non diciamo semplicemente che il bambino va ascoltato con molta attenzione, non dando per scontato che dica la verità, ma senza accanirci nel dimostrare in mala fede la sua inattendibilità. Una maggiore severità nel punire questi reati è condivisibile, ma evitando la giustizia privata ed i linciaggi, che per la verità, in questi ultimi tempi, diventano sempre più frequenti. L’antiviolenza è e deve essere soprattutto una prova di civiltà.

Non mi sembra il caso di litigare anche su questo. Non si può litigare sull’antiviolenza. È un controsenso.

Un discorso a parte è quello che riguarda i presunti abusi successivi alla separazione dei genitori. In questo caso la responsabilità del genitore affidatario che denuncia l’abuso è innegabile. Perché se il bambino non ha subito violenza sessuale dal genitore non affidatario allora è stato vittima di una violenza psicologica da parte del genitore affidatario. Delle due, una. Instillare in un bambino il dubbio che il padre abbia fatto violenza su di lui significa inevitabilmente comprometterne lo sviluppo affettivo.

Qual è il confine fra i dubbi di una madre e la sua mala fede? I sospetti su un padre che si occupa dell’igiene intima di una figlia sono tali da poter giustificare una denuncia? Sorge il dubbio che in una separazione conflittuale quei sospetti siano funzionali alla eliminazione della figura paterna dalla vita della figlia. Questa eliminazione si consuma sia nel caso che l’abuso ci sia  stato, sia nel caso che non ci sia stato, perché il rapporto di quel padre con la figlia è già inquinato dal sospetto materno.

La violenza sessuale sui minori è caratterizzata dal fatto che il bambino non ha gli strumenti cognitivi ed affettivi per percepire la violenza, almeno in un primo momento. La confusione dei linguaggi rende indecifrabile l’esperienza traumatica; ma nei casi di false denunce da parte di genitori separati è come se tutto fosse svelato prima del tempo, costringendo il bambino a riferire e a fare proprie cose che non avrebbe mai sospettato. “Come ti tocca papà?”, “Dove di tocca?”. Il tarlo del dubbio è instillato.

Sul versante opposto ci sono genitori che ritengono i figli troppo piccoli per capire. Di fronte alla violenza assistita spesso si adduce questo tipo di giustificazione: “Non pensavamo che capisse quello che stava succedendo, è troppo piccolo …”, “Chi avrebbe mai immaginato…”

Lo stesso pretesto viene utilizzato nei casi di corruzione di minorenne, quando il bambino assiste ad atti sessuali dei genitori; anche in questo caso il bambino è troppo piccolo per capire.

Insomma, ci sono casi in cui il bambino è troppo piccolo per capire, ed altri in cui è abbastanza grande non solo per capire, ma anche di riferire nel processo.

La capacità di un bambino di capire e riferire dipende dall’obiettivo che vuole raggiungere il genitore: screditare l’ex coniuge o coprirlo. Nel primo caso il bambino viene invitato a riferire, nel secondo a tacere. Nel primo caso a riferire quello che non è successo. Nel secondo a tacere quello che è successo.

Segnaliamo subito un problema: interesse della giustizia è scoprire la verità, l’interesse del minore consiste nel tutelarlo. Non sempre questi due interessi sono compatibili. Spesso accade che il prevalere dell’uno comprometta l’altro. Compito degli operatori dell’antiviolenza è quello di rendere questi due interessi il più possibile compatibili, se non addirittura sovrapponibili.

Un ascolto protetto condotto male può trasformarsi in un’incomprensibile violenza sul minore abusato, ma se fatto bene, ha un effetto catartico, aiuta il processo di svelamento, non costituisce un ulteriore trauma.

Il bambino nel processo è un argomento molto delicato e ricco di implicazioni metodologiche che vanno approfondite. Siamo tutti d’accordo sul fatto che le capacità empatiche di chi ascolta favorisca l’ascolto del minore, ma c’è il rischio che proprio questa empatia si traduca in una sorta di alleanza fra ascoltatore ed ascoltato, che induca quest’ultimo a compiacere il primo. C’è il rischio, insomma, che la capacità empatica si trasformi da risorsa in limite nella misura in cui invece di ottenere la verità suggerisce le risposte. Dietro questo dubbio si cela un’altra domanda inquietante: stiamo disquisendo sulla inattendibilità del bambino o dell’impreparazione di chi ascolta o peggio della sua mala fede? Utilizzare la capacità empatica per suggerire le risposte attiene alla inadeguatezza di chi ascolta, non all’inattendibilità del minore. E non dimentichiamo che convincere un bambino a riferire quello che non è gli è successo significa comunque fargli violenza perché il suo rapporto con il genitore accusato ingiustamente è definitivamente compromesso. Ma anche costringerlo a ritrattare una violenza subita costituisce un’ulteriore forma – la peggiore – di violenza sulla vittima.

Se sussiste il rischio che il bambino testimone compiaccia l’intervistatore empatico, significa che dobbiamo rinunciare all’empatia e scegliere una modalità d’ascolto più fredda e neutrale? Essere neutrale significa essere freddi? Perché la neutralità deve essere associata alla freddezza? Si può essere neutrali e caldi? O se si è caldi si suggeriscono le risposte?

Queste domande non mi piacciono, perché mettono al primo posto un presunto interesse della giustizia su quello del minore abusato. Mettere a proprio agio un bambino non può costituire un ostacolo al corso della giustizia, né tanto meno è ammissibile che un procedimento penale a carico di un abusante prenda il sopravvento sui provvedimenti cautelari in favore di un minore. Eppure mi è successo che per espletare una consulenza tecnica d’ufficio disposta dal Tribunale per i minorenni ho dovuto aspettare per più di un anno che si concludessero le indagini disposte dal PM sui presunti abusanti.

Ma torniamo al bambino testimone.

Fra domande suggestive e risposte indotte, falsi ricordi, assecondamenti e confabulazione la testimonianza del minore diventa uno dei temi più scottanti e affascinanti della psicologia giuridica.

Ricordiamo che la capacità “fisica e mentale” a testimoniare può costituire il quesito di una consulenza tecnica, mentre l’attendibilità dovrebbe essere una valutazione del magistrato.

Pertanto idoneità a testimoniare e attendibilità non rappresentano la stessa capacità. Essere in grado di riferire l’accaduto non significa che si riferisca la verità. Le categorie della competenza, della credibilità e dell’accuratezza del ricordo sono elementi che contribuiscono a stabilire il contenuto di un ricordo, ma come si può tenere così rigorosamente separati la verità processuale dal ricordo dell’evento traumatico? L’elemento processuale dal dato clinico? Un minore abusato avrà pure il diritto di rimuovere il trauma, ma questa non è ritrattazione. Rimozione o ritrattazione? Sarebbe un bel quesito, in cui il perito dovrebbe attribuire ad un processo psicologico un significato giuridico.

I bambini – comunque – sono più attendibili di quello che alcuni difensori vorrebbero far credere. Abbiamo detto che la valutazione dell’attendibilità non dovrebbe essere un accertamento tecnico. Ma c’è un modo per aggirare l’ostacolo: una consulenza sulla coerenza interna di quanto dichiarato dal minore è un modo molto elegante per far coincidere capacità a testimoniare, valutata dal perito ad attendibilità, che dovrebbe essere valutata dal magistrato.

Non è facile districarsi in questi concetti al confine fra il diritto e la psicologia, non lo è mai stato, ma dobbiamo avere il coraggio di ammettere che quello che il bambino rivela dipende sia dal gioco delle proiezioni del bambino in chi ascolta, ma anche di quest’ultimo nei confronti del bambino e del suo abusante. L’esperto costruisce insieme al bambino la verità processuale e pertanto è necessaria la sua totale buona fede. In questo senso va interpretata la sua neutralità: la capacità di non farsi condizionare dalle indagini svolte e dalle aspettative di magistrati e avvocati, ma di concentrarsi solo sul mondo del bambino.

Non è affatto facile, soprattutto quando la vittima è un disabile. Il bambino disabile più facilmente diventa vittima dell’abusante, ha quasi il doppio di probabilità di diventare vittima rispetto ai bambini senza disabilità. L’abusante sa scegliere le sue vittime. Ma questo rende ancora più complesso il problema processuale dell’attendibilità e della capacità a testimoniare. Un altro vantaggio per l’abusante.

Compito dell’operatore dell’antiviolenza pertanto è quello di facilitare la testimonianza delle vittime. In altri termini, il modo migliore per combattere la violenza è quella di rendere attendibili e capaci di testimoniare le vittime, sia i minori sia i disabili.

Non dobbiamo porci il problema se i minori siano o non siano attendibili e capaci di testimoniare, ma come renderli attendibili e capaci.

Non dobbiamo farci tentare dalla tentazione verificazionista, cioè di confermare l’ipotesi iniziale del presunto abuso, compiacendo il minore e facendo in modo che lo stesso minore compiaccia il suo intervistatore; ma dobbiamo stare attenti anche alla tentazione falsificazionista, mettendo in difficoltà il minore testimone, per mettere alla prova la sua capacità di testimoniare; anche questa  è un’ulteriore forma di violenza. Il minore non è un’ipotesi da falsificare per verificare la sua attendibilità. Dovremmo stare lontani dalla compiacenza del verificazionismo e dal sadismo del falsificazionismo. Mi viene il dubbio che il conflitto di fondo fra verità processuale ed interesse del minore è viziata dall’inveterata abitudine di confondere la verità processuale con la tutela dell’imputato. D’accordo sul garantismo, ma anche la tutela del minore va garantita. Non anche, soprattutto.

[1] http://www.altalex.com/index.php?idnot=36786

[2] http://www.altalex.com/index.php?idnot=36785

[3] Il documento è pubblicato in Minorigiustizia, n2/2008, pag. 333

 

Fonte: Osservatorio Psicologia nei Media