La violenza nei media

 Uno studio degli Psicologi Americani ha evidenziato che la violenza in TV e in diversi  Video Game possono procurare effetti dannosi sui minori.
Dalle prime ricerche che l’APA, l’Associazione degli Psicologi Americani,  rende note nel novembre scorso, si evidenziano effetti di destabilizzazione e una potenziale aggressività identiche sia per coloro che sono sottoposti ad immagini violente in TV sia per coloro che usano giocare a videogiochi violenti.
Fin dagli albori della televisione  i genitori, gli insegnanti, i legislatori e i professionisti della salute mentale hanno voluto capire l’impatto dei programmi televisivi in particolare sui bambini.
Particolarmente interessante è stata la rappresentazione della violenza, soprattutto in considerazione del lavoro dello psicologo Albert Bandura, nel 1970, sull’apprendimento sociale e sula tendenza dei bambini a imitare ciò che vedono.
Nel 1969 fu costituito in America un comitato scientifico per la valutazione dell’impatto che la televisione avesse sul comportamento sociale, soprattutto ci si chiedeva quanto incidesse la violenza cui si assisteva, sugli atteggiamenti, valori e comportamenti degli spettatori.
La relazione finale e una relazione di follow-up del 1982 del National Institute of Mental Health hanno identificato questi importanti effetti sui bambini:

1) possono diventare meno sensibili al dolore e alla sofferenza degli altri
2)  possono essere più timorosi del mondo che li circonda
3)  possono essere più propensi a comportarsi in modi aggressivi o pericolosi verso gli altri

Una ricerca di psicologi, tra cui  L. Rowell Huesmann, Leonard Eron e altri, a partire dal 1980 ha evidenziato che i bambini che hanno assistito per molte ore a scene di  violenza in televisione quando erano nella scuola elementare, tendevano a mostrare livelli più elevati di comportamento aggressivo quando diventavano adolescenti. Osservando questi partecipanti in età adulta, Huesmann e Eron hanno scoperto che quelli che avevano guardato un sacco di violenza in TV quando avevano 8 anni avevano più probabilità di essere arrestati e processati per atti criminali da adulti.
Tuttavia, in seguito la ricerca degli psicologi Douglas Gentile e Brad Bushman  ed gli altri  ha evidenziato che l’esposizione alla violenza nei media è solo uno dei numerosi fattori che possono contribuire al comportamento aggressivo.

Altre ricerche hanno trovato che l’esposizione alla violenza nei media può desensibilizzare le persone alla violenza nel mondo reale e,  alcune persone,  considerano addirittua  piacevole la violenza nei media,  che finisce per non comportare più  l’eccitazione ansiosa che ci si aspetterebbe di vedere dinnanzi a questo tipo di immagini.

L’avvento dei videogiochi, d’altronde,  ha sollevato nuove questioni circa l’impatto potenziale di violenza dei media, visto che il giocatore di videogiochi è un partecipante attivo  piuttosto che un semplice spettatore.
Il sette per cento degli adolescenti americani di età 12-17 usa abitualmente i video giochi  su un computer, su console come il Wii , Playstation e Xbox , o su dispositivi portatili come Gameboy , smartphone e tablet .
Molti dei videogiochi più popolari, come “Call of Duty ” e ” Grand Theft Auto” sono violenti, tuttavia, visto che  la tecnologia dei videogiochi è relativamente nuova, ci sono meno studi empirici sulla correlazione della violenza dei videogiochi rispetto ad altre forme di violenza nei media. Eppure diverse recensioni  hanno riportato effetti negativi dell’esposizione alla violenza nei videogiochi.
Nel  2010 una ricerca  dello psicologo Craig A. Anderson e altri, ha concluso che “l’evidenza suggerisce fortemente che l’esposizione a videogiochi violenti è un fattore di rischio causale per un maggiore comportamento aggressivo”.  Anderson in precedenti ricerche ha mostrato che i videogiochi violenti possono aumentare i pensieri di una persona aggressiva , i sentimenti e comportamenti, sia in ambienti di laboratorio che nella vita quotidiana.

Altri ricercatori , tra cui lo psicologo Christopher J. Ferguson , hanno contestato la posizione che la violenza dei videogiochi danneggia i bambini . Nonostante  i suoi studi del  2009 abbiano riportato risultati simili a Anderson, Ferguson sostiene che i risultati di laboratorio non sono traducibili  nel mondo reale in effetti significativi. Egli sostiene inoltre che gran parte della ricerca sulla violenza dei videogiochi non è riuscita a controllare  altre variabili quali la salute mentale e della vita familiare , che possono aver influenzato i risultati. Il suo lavoro ha scoperto che i bambini che sono già a rischio possono essere più propensi a scegliere videogiochi violenti per divertirsi.  Secondo Ferguson  questi altri fattori di rischio, a differenza dei giochi, causano un comportamento aggressivo e violento.

L’American Psychological Association ha avviato un’analisi nel 2013 della ricerca peer-reviewed sull’impatto della violenza nei media e sta riesaminando le sue dichiarazioni programmatiche sull’argomento . Entrambi  dovrebbe essere completati nel 2014.(1)

Che il tema in America sia molto sentito è dimostrato dal fatto che nel 2013 lo stesso Barack Obama, durante una conferenza in ricordo della strage di Newton, abbia annunciato di aver destinato  un “fondo per la ricerca degli effetti dei videogiochi violenti sulle giovani menti“.  “Il nostro primo compito come società è tenere al sicuro i nostri figli.” ha affermato Obama.
In Italia diversi organismi di ricerca, pubblici e privati hanno dedicato attenzione alla tematica. Un’indagine del 2011 dell’Istituto di Ortofonologia di Roma (IdO) condotta su 1.414 studenti della Capitale dai 10 ai 19 anni ha evidenziato che l 75% degli adolescenti italiani gioca ai videogiochi on line e nel 40% dei casi lo fa da solo contro il computer, oppure contro persone conosciute in rete (l’11%).  Interrogandosi  su quanto i videogiochi possano influenzare gli aspetti cognitivi ed emotivi dei minori l’IdO ha evidenziato che essi da una parte  offrono la possibilità di mettere in connessione persone in tutto il mondo, e misurarsi con il concetto di sfida e superamento degli ostacoli, ma dall’altra rischiano di diventare una modalità per isolarsi dalla relazione (2).
Sempre secondo l’IdO i giovani appaiono consapevoli di questi rischi e sanno anche che non tutti i giochi sono positivi per la loro crescita. Di fatto sette studenti su dieci considerano i contenuti dei videogiochi non adatti alla loro età.  Dalla ricerca quindi emerge che i giovani fruitori dei videogiochi sono informati e responsabilizzati e sanno esprimere un giudizio serio sul tema.
Nel frattempo il 7 maggio di quest’anno scienziati, pediatri, clinici e sostenitori della lotta alla violenza si sono riuniti a a Vancouver (Canada), per il meeting annuale Pas-Pediatric Academic Societies, al fine di approfondire l’argomento.  Secondo tali studiosi ‘violenza chiama violenza, anche quando all’aggressività si assiste attraverso lo schermo in un cinema, della tv o di un videogioco” (3).

Certo l’argomento presenta ancora tanti punti da approfondire e tanti interrogativi cui rispondere. Mi piace concludere l’articolo con  il quesito che si pone  di George Carlin (4): “Si fa un gran parlare della violenza in televisione che genera a sua volta violenza nelle strade. Beh!, i programmi comici si sprecano in TV: il che provoca forse un aumento della comicità per le strade?”

Note:

  • (1) http://www.apa.org/research/action/protect.aspx
  • (2) http://www.genitoridemocratici.it/minori-videogiochi-75-usa-quelli-line-e-gioca-solo/
  • (3) http://www.adnkronos.com/IGN/Daily_Life/Benessere/Pediatria-immagini-violente-aumentano-aggressivita-legame-provato_321512409114.html
  • (4) comico, attore e sceneggiatore statunitense.

di Lorita Tinelli

Fonte: Osservatorio di Psicologia nei Media

Oltre il legame. Riflessioni sul bondage

SEGNALAZIONE

Gentili colleghi, ho letto i seguenti articoli

http://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/notizia.php?IDCategoria=1HYPERLINK “http://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/notizia.php?IDCategoria=1&IDNotizia=454251″&HYPERLINK “http://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/notizia.php?IDCategoria=1&IDNotizia=454251″IDNotizia=454251;http://roma.repubblica.it/cronaca/2011/09/11/news/parla_l_nsegnante_di_bondage_erano_iscritti_alla_mia_scuola-21504242/

Mi chiedevo se tali pratiche fossero normali e cosa ne pensassero gli psicologi in generale.

Lettera firmata

 

 

 

COMMENTO REDAZIONALE A CURA DELLA DR.SSA Lorita Tinelli

Bondage: quel sottile legame tra Eros e Thanatos

A volte il guerriero della luce ha l’impressione di vivere due vite nello stesso tempo.
In una è obbligato a fare tutto ciò che non vuole, a lottare per idee nelle quali non crede.
Ma c’è anche un’altra vita, ed egli la scopre nei sogni, nelle letture, negli incontri con uomini che la pensano come lui.
Il guerriero consente sempre alle due vite di avvicinarsi.
“C’è un ponte che collega quello che faccio con ciò che mi piacerebbe fare,” pensa.
A poco a poco, i suoi sogni cominciano a impadronirsi della vita di tutti i giorni, finchè‚ egli avverte di essere pronto per ciò che ha sempre desiderato.

Allora basta un pizzico di audacia, e le due vite si trasformano in una.

Coelho

 

 

Negli ultimi mesi i media ci hanno riportato tre casi di morte dovuti alla cattiva gestione di un gioco erotico. Una ragazza di 24 anni ha perso la vita a Roma, un trentasettenne l’ha persa a Vignola Falesina, provincia di Trento e un uomo di 56 anni a Rovigo. La causa della morte per tutti è stato il soffocamento simulato come gioco erotico o asfissiofilia.

In tutti i casi le procure preposte hanno aperto indagini sui rispettivi partner o compagni di gioco per omicidio colposo.

Le persone rimaste uccise provengono dagli strati sociali più disparati: una studentessa, un vicesindaco, un operaio. Tutti erano coinvolti in una forma di masochismo che è degenerato sino alle estreme conseguenze.

Ma cosa spinge la gente a praticare tali forme di sesso estremo?

Tali giochi in cui piacere e dolore si fondono, sfiorando la morte, vengono sperimentati ed insegnati in diverse scuole, presenti anche nella nostra nazione. Qui si impara il breath play (il gioco del respiro che prevede due donne legate agli estremi di una corda, come in una bilancia, fino a togliersi il respiro, con un uomo che le osserva), lo Shibari (gioco che prevede di legarsi con le corde) e tante altre forme di bondage in cui vengono usati sacchetti, bende e strumentazione varia, che, a detta degli estimatori del genere, porta al raggiungimento di punte massime di piacere.

Inserendo la parola ‘bondage’ nei motori di ricerca appaiono come risultato diverse centinaia di negozi che vendono anche on line oggettistica per tali tipi di performance: mascherine, corse, manette deconrate, frustini, fermo per giochi erotici e molto altro possa stimolare la fantasia. Nei medesimi siti si offrono anche consigli su come usare gli strumenti perché secondo gli autori il bondage non è una questione di tecniche ma di sentimenti, i polsi legati dietro alla schiena con un foulard sono efficaci come una posizione dove si usano decine di corde, con tanto di foto che rappresentano le varie posizioni: quella comoda, la tartaruga, caviglie affiancate, sospensione a testa in giù, sospensione a testa in su e molto altro.

Il Dottor Davide Dettore, docente di psicopatologia del comportamento sessuale all’Università di Firenze, in una intervista rilasciata su Ok Salute.it ha affermato che, secondo chi pratica tali giochi, la mancanza di aria amplifica l’eccitazione e le sensazioni sessuali, rendendo più piacevole e più intenso l’orgasmo. Ma tale sensazione di soffocamento dovrebbe essere fermata prima che tutta la situazione diventi pericolosa. Quindi i ‘giocatori’ dovrebbero essere ben responsabili e attenti al dettaglio.

Sempre secondo Dettore la pratica permette ad una parte di dominare e all’altra di sentirsi umiliata e controllata. “Secondo alcuni, i masochisti si sentono forti perché sono in grado di tollerare il dolore. Secondo altri, il piacere è dato dalla perdita di controllo (che è concentrato nelle mani di un altro): un modo per andare contro all’ipercontrollo della persona imposto dalla società” (http://www.ok-salute.it/sesso-psicologia/11_a_bondage-asfissiofilia.shtml).

Spesso in tali pratiche il sesso nella sua forma tradizionale è presente in misura minoritaria o addirittura ne è del tutto escluso. Sembrerebbe che questa nuova forma di sessualità si svincoli sempre di più dalla generatività portando il sesso lontano dalla procreazione o comunque non necessariamente al suo servizio. L’attenzione è spostata al bisogno di ‘recuperare’ altri significati, mediante la stimolazione sensoriale estrema di sé o dell’altro. A volte, ma non è una regola, il gioco viene accompagnato dall’uso di sostanze allucinogene, affinché l’esperienza possa risultare quanto più estremizzante possibile.

Le regole fondamentali e necessarie di tali attività sono: la sicurezza (“saver word”, il comando che da la possibilità al partner passivo di interrompere il gioco), la consensualità (la persona che assume il ruolo di ‘sottomesso’ acconsente ad essere tale sulla base di un accordo paritario preso da entrambe le parti prima di iniziare il gioco), la flessibilità dei ruoli (che possono diventare interscambiabili o comunque congeniali alla persona che ne sceglie uno), la soddisfazione reciproca.

Il gioco, quindi deve essere sicuro ma nulla deve ritenersi sbagliato se all’interno di esso i partecipanti sono consenzienti.

Fu lo stesso attivista David Stein, nel 1984, ad usare queste definizioni, volendo distinguere un tipo di Sadismo/Masochismo consensuale, da quello deviato e autodistruttivo, definito dallo stesso come sadomasochismo.

L’avvocato Filippo Lombardi afferma che tale pratica sessuale estrema si incentra sul diritto/dovere di provocare sensazioni dolorose. L’uso scorretto di tali pratiche è variegato e, come lui stesso afferma non di rara verificazione. Si tratta di eventi connessi al blocco della circolazione sanguinea, alla possibile rottura, slogatura, lussatura di ossa, il blocco della respirazione con connesso soffocamento, le lesioni o abrasioni della cute, che potranno poi essere più o meno gravi a seconda dei casi. E i danni possono diversificarsi in entità o natura, a seconda degli ulteriori ed eventuali strumenti sessuali utilizzati nel caso concreto (

Pratiche sessuali estreme e diritto penale. Focus sulla pratica dello Shibari (HYPERLINK “http://spuntianalitici.blogspot.com/2012/05/pratiche-sessuali-estreme-e-diritto.html””HYPERLINK “http://spuntianalitici.blogspot.com/2012/05/pratiche-sessuali-estreme-e-diritto.html”BondageHYPERLINK “http://spuntianalitici.blogspot.com/2012/05/pratiche-sessuali-estreme-e-diritto.html””HYPERLINK “http://spuntianalitici.blogspot.com/2012/05/pratiche-sessuali-estreme-e-diritto.html”).

Nonostante i pareri tecnici, sempre Internet ci riporta un mondo, neppure tanto occulto, di esperienze, curiosità, raccontate da chi il Bondage lo pratica e ne fa anche una corrente di pensiero.

Su un forum di psicologia, un’anonima estimatrice di Bondage scriveva nel 2008 che praticandolo, ha notato ad esempio che in una sessione attiva provo le seguenti emozioni/sensazioni:
– Aumento dell’autostima.
– Aumento della consapevolezza ( forse xké devo badare all’incolumità della ragazza legata )
– Aumento dell’adrenalina.
– Senso di potenza

 

In una sessione passiva invece:
– Imparo a fidarmi della persona che mi ha legato.
– Diminuzione dello Stress ( B&T )
– Diminuzione dell’Ansia ( B&T )
– Generale senso di Rilassamento.
– Aumento dell’autostima ( se si fanno giochi di dominazione non so se succede lo stesso, dato che non ne faccio; io dopo una sessione passiva mi sento ugualmente “bene” e “carica” di autostima ).

In un altro forum Chiara scrive:

apprezzo molto il bondage, personalmente ritengo stuzzichi molto la mia fantasia. E dato che in ogni ambito della vita rivestiamo ruoli mi piace pensare che nel sesso si possa ricoprire un ruolo che nella vita non è il nostro, o seguire le proprie inclinazioni caratteriali.

Abba parla anche di un contratto di schiavitù che contiene delle ferree regole che obbligano il/la master/mistress a prendersi cura del/della proprio/a slave affinché durante il gioco non subisca danni permanenti e possa continuare a “recitare” il proprio ruolo….

Emerge quindi un mondo di persone che sembrano disquisire con certa maturità ed equilibrio, e senza usare terminologie inappropriate, su regole, metodologie, fantasie ed emozioni. In quello che sembra un viaggio esplorativo dei propri confini, delle proprie necessità e fantasie.

Per di più se tali pratiche vengono svolte con esplicite modalità consenzienti, come più e più volte emerge anche dai discorsi visibili in rete, esse vengono a collocarsi in un’area di normalità ( non sconfinano cioè nella psicopatologia, come la porno dipendenza, il sadomasochismo ecc.).

Spesso è la cultura di appartenenza che decide in fatto di normalità o di patologia dei comportamenti sessuali.

Negli ultimi anni la rete internet ha aiutato molto i cultori del bondage a venire allo scoperto, a non sentirsi ‘anormali’ o ‘deviati’, a condividere proprio una cultura molto variegata e a liberarsi delle proprie fantasie, seguendo lo schema prefissato del sano, sicuro e consensuale.

Per anni ho avuto fantasie bondage, fantasie dove legavo donne o dove venivo legato. Per anni mi sono sentito un anormale, un malato, un deviato.
Per anni ho tenuto tutto nascosto dentro di me, perché convinto di essere pericoloso per me e per gli altri. Per anni, quando si parlava di sesso, mi chiudevo in me stesso perché insicuro. Per anni …… ho sprecati tutti quegli anni.

Poi è venuta la Rete, prima con i siti in lingua inglese, poi con quelli, sempre più numerosi, italiani Poi sono venute le chat, i forum, le mailing list, IRC, ICQ e via discorrendo. (…) Il mio sogno è una partner che consideri piacevole e stimolante il bondage, sia come un modo per dividere con un’altra persona una intimità speciale, sia come uno stimolante gioco sessuale. Non voglio una vittima o essere io stesso una vittima, ma qualcuno con cui poter indulgere nella fantasia.” – racconta un altro estimatore.

In conclusione, se davvero i giochi prevedono e corrispondono alle regole della consensualità e della sicurezza sono ben viste dalla psicologia. I limiti, scaturenti in reati, sono di competenza della magistratura.

 

Fonte: Osservatorio di Psicologia nei Media

La geografia del limite

SEGNALAZIONE

Carissimi colleghi,

ho trovato in internet una interrogazione dell’Onorevole Scilipoti, su sollecitazione di alcune associazioni di tutela dei consumatori, che punta il dito contro una organizzazione che promuove corsi di memoria, ma che in realtà pare fare tutt’altro. Secondo quanto scritto nell’interrogazione, i metodi su cui si basano gli organizzatori di tali corsi sono basati sulla PNL. Ma la cosa che più mi stupisce è leggere che “nessuno dei membri di questa società è laureato in psicologia, pedagogia, scienze della formazione e medicina (psichiatria), e quindi abuserebbe della professione”.

Ho trovato poi, sempre in internet, un filmato promozionale della stessa società e sono rimasta profondamente colpita da quanto ho visto.

Mi chiedo a questo punto come sia possibile tutelare sia noi psicologi professionisti abilitati ma soprattutto l’utenza dall’uso improprio di tecniche psicologiche da parte di persone non formate ad utilizzarle?

Lettera Firmata

LINK ORIGINALE

http://banchedati.camera.it/sindacatoispettivo_16/showXhtml.Asp?idAtto=27280&stile=6& highLight=1

ALTRI LINK COLLEGATI

 

 

COMMENTO REDAZIONALE A CURA DELLA DR.SSA LORITA TINELLI

“Certo, non tutti gli specialisti di medicine parallele (o dolci) sono reclutatori al servizio delle sette, ma bisogna ammettere che la battaglia quotidiana che conducono contro la razionalità contribuisce ad allargare la breccia nel muro di dubbio che separa l’uomo sofferente dal credulone estatico, credente devoto nella rivelazione di guarigione che gli viene propinata”.

Jean-Marie Abrgrall – I ciarlatani della salute – Editori Riuniti.

Nel corso degli ultimi anni diverse associazioni, che promuovono la tutela dei diritti e della salute degli individui, hanno ricevuto un numero sempre più crescente di richieste di aiuto da parte di chi era rimasto danneggiato dopo aver sperimentato alcuni percorsi  di carattere psicologico.

L’enorme numero di utenti scontenti, dimostrato anche dai diversi forum tematici di discussione che ogni giorno si aprono nella rete informatica, evidenzia la presenza di un bisogno sempre più impellente dell’essere umano di percorrere corsi, seminari, incontri… finalizzati all’approfondimento di argomenti di carattere psicologico o al potenziamento di funzioni mentali (quali l’apprendimento, la memoria, la capacità attentiva) ma anche relazionali (per esempio la capacità seduttiva). Non solo. Dimostra anche che il mercato offre risposte sempre più variegate alla varie domande, che spesso prescindono da alcune norme di carattere legale.

Esistono per l’appunto corsi di seduzione, corsi che promettono di insegnare strategie per diventare milionari nel giro di pochi giorni, corsi che promettono percorsi che aiutano il raggiungimento di una maggiore consapevolezza e così via.

Come ha sottolineato l’Onorevole Scilipoti, primo firmatario dell’interrogazione presentata ai Ministeri della Giustizia, dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, sollecitata dal deputato Antonio Borghesi nel marzo 2011,  la preoccupazione è che tali percorsi sembrerebbero proposti ed esercitati da operatori che non hanno alcuna formazione in merito ad argomenti di carattere psicologico né possiedono l’abilitazione all’utilizzo di tecniche desunte dalla psicologia.

Entrambi i politici citati, partendo proprio dal risultato delle esperienze umane a loro riferite, affermano:  “In Italia vengono attivati corsi di memoria, lettura veloce e crescita personale, basati sulla programmazione neuro linguistica (PNL); si tratta di una tecnica psicologica, la cui valenza scientifica è ancora da assodare, che teorizza la possibilità di influire sugli schemi comportamentali di soggetti attraverso la manipolazione di processi neurologici messi in atto tramite l’uso del linguaggio (…)”.

La medesima preoccupazione è presentata in un’altra interrogazione del luglio 2010 dall’Onorevole Massimo Donadi il quale afferma: “Spesso tali personaggi non hanno nemmeno i titoli accademici atti all’esercizio di qualsiasi professione inerente la loro truffa; per convincere le vittime adotterebbero suggestioni di massa, ma ancora peggio la tecnica del PNL (programmazione neuro linguistica) …”.

Il  criminologo  francese Jean-Marie Abgrall afferma che talvolta tali operatori (definiti dallo stesso autore ‘ciarlatani della salute’) rischiano, con il loro operare, di distogliere la persona alla ricerca dall’unico cammino che potrebbe portarla al raggiungimento dei suoi equilibri o della sua ‘guarigione’.

Spesso i corsi proposti da operatori non formati né abilitati alla professione di psicologo, attingono a teorie ormai desuete della psicologia, che utilizzano un approccio ‘intuitivo’ fondato sul concetto che il corso proposto può fornire una conoscenza della causa dei problemi o dei bisogni dei propri iscritti.

Il fine ultimo non diventa più la crescita della persona, così come promosso in prima istanza, ma il suo assoggettamento. Difatti l’utente finisce per entrare in un vortice di corsi di primo, secondo, terzo, quarto … livello, quasi dovesse aprire una serie di scatole cinesi per acquisire particolari conoscenze, ai quali non riesce a sottrarsi, con grande aggravio in termini economici e spesse volte di danni alla salute psicofisica.

Certamente, come afferma Abgrall, non è il caso di fare di tutta l’erba un fascio. Ma è bene offrire al fruitore di ‘servizi psicologici’ tutte le informazioni necessarie per una scelta più oculata  che vada incontro ai suoi bisogni reali.

Documenti e libri consultati

http://banchedati.camera.it/sindacatoispettivo_16/showXhtml.Asp?idAtto=27280&stile=6& highLight=1

http://www.gris-imola.it/audio_video/Interrogazione%202010.pdf

http://www.gris-imola.it/audio_video/interrogazione%20Licastro.pdf

Jean-Marie Abgrall, Mécanique des sectes (Parigi, Payot 1996)

Jean-Marie Abgrall, I ciarlatani della salute (Editori riuniti, 1999)

 

PARERE DEL DR. MAURO GRIMOLDI

Quello dei contorni, dei confini di ogni cosa è sempre un tema ricco di fascino. L’Ulisse dantesco esorta i suoi compagni, giunti alle Colonne d’Ercole, finis terrae delle antiche carte geografiche a superare quel limite: “O frati, che per cento milia perigli siete giunti a l’Occidente, in questa tanto picciola vigilia dei nostri giorni, del domani non vogliate negare l’esperienza”. Oltre il quale, giova rammentare, appena intravista la montagna del purgatorio, troveranno la morte.

Nel caso della Psicologia il territorio è vasto, e la questione della geografia del limite non è indifferente alla funzione stessa di quel limite; tuttavia non meno pericoloso è il superamento dei confini. Il che non è affatto estraneo rispetto al tema dei corsi, dei venditori di illusioni roboanti scandite dagli applausi della setta che cancella l’arbitrio dell’individuo, degli artigiani delle passeggiate sui carboni ardenti e dell’empowerment dei dirigenti high-potential basato su tecniche, su prassi che coinvolgono il sistema psiche-soma in modi spesso drammatici e potentemente evocativi.

Il fatto è che la Psicologia nasce lontanissima da questo confine, allora imprevedibile.

Nasce, da un lato, dal magma primordiale della filosofia e della medicina, in accademia. Nelle Università del XIX secolo si cominciano ad effettuare misurazioni dei comportamenti e delle percezioni, a studiare il condizionamento. È il tempo di Wundt e di Skinner. Pochi anni più tardi il più coraggioso e geniale neurologo della storia inaugura una prassi che chiamerà psicoanalisi, prima o insieme ad una teoria dell’inconscio, e da lì inizia un dispositivo di cura non già del corpo, ma della mente. L’invenzione dell’inconscio è cioè coeva a quella di una terapia della psiche, di una clinica come pratica che, come efficacemente rilevava Valeria La Via, ha la stessa radice etimologica del clinamen di Lucrezio, e che qui indica un soggetto-paziente piegato, sdraiato.

Da questa posizione inclinata, sdraiata del paziente si individua una differenza di ruolo, di status e di potere essenziale ai fini della percezione sociale della psico-terapia. Una differenza di status e di distribuzione del potere, quella tra terapeuta e paziente, evidentemente non priva di qualche rischio. Anche se non così drammatica come nel caso del rapporto con il medico, rapporto in cui il corpo del paziente è totalmente affidato all’epistème, alla scienza e coscienza di un Altro, tuttavia già il ricordo degli esperimenti ipnotici di Mesmer e delle tinozze ipnotiche in cui galleggiavano i pazienti, non poteva non condizionare da subito la percezione della terapia come una prassi da tenere sotto attenta osservazione. La questione dell’asimmetria dei poteri avrebbe avuto buoni motivi di essere affrontata, non fosse stato che gli Psicologi si relegano da soli uno spazio preferenziale nei luoghi di cura della follia, nella istituzioni totali in cui rinchiudere era funzionale all’oblio sociale, a dimenticare l’esistenza della follia. Propongo l’esistenza di un legame consequenziale tra la legge 180 del 1978 e una seconda legge, la 56 del 1989 che, solo nove anni dopo stabilisce delle regole nelle professioni di cura della psiche umana. La rinnovata visibilità degli Psicologi e l’apertura degli ospedali psichiatrici, che ha “fatto uscire”, insieme a molti psicotici quasi altrettanti psicologi dalle mura contenitive degli ospedali psichiatrici ha prodotto un’esigenza sociale, non solo corporativa, l’esigenza di una legge, di una norma, di un contenitore.

Facciamo un balzo repentino in avanti. Lo scorso anno, nel 2010 due Carabinieri del comando dei NAS si presentano ad un Ordine degli Psicologi di una piccola regione italiana. Il quesito che pongono è preciso: “l’ipnosi è un atto che possono fare solo gli Psicologi?”. La domanda non aveva – e non ha – una risposta così certa e  univoca come i militari dell’Arma credevano. Già, perché proprio l’ipnosi, che ha accompagnato la storia della Psicologia fin dai suoi albori, mette in primo piano proprio la dimensione del potere, e, con essa, del pericolo che potenzialmente corre il paziente, se mal-trattato. L’ipnosi, esige, nell’immaginario collettivo, delle tutele. Mica possono farla tutti, sembrano dire i Carabinieri nel nostro esempio. È lo stato di debolezza, di totale affidamento di un paziente non nel pieno possesso delle sue capacità di intendere e, soprattutto di volere, a sconcertare.

Gli Psicologi sono i peggiori difensori di sé stessi e dei loro pazienti, in questi casi. Perché troppo spesso hanno la sensazione che la legge sia stata fatta a proprio beneficio. La potenzialità, l’illusione corporativa della legge li fa sentire responsabili, e forse perfino colpevoli. Non è così e non di rado il mondo sociale si aspetta una tutela più ferma e precisa della prassi psicologica e psicoterapeutica, ovvero di una prassi che è orientata al sociale e che il cliente-paziente vuole sia attentamente sorvegliata e tutelata. La legge 56 che ha strappato la Psicologia dai territori dell’approssimazione e delle competenze innate e spontanee, richiedendo un percorso preciso e normato dall’art. 33 della Costituzione, nasce per difendere gli utenti, i cittadini, e, solo incidentalmente, gli Psicologi.

Il movimento compiuto dalla Psicologia e dalla Psicoterapia è andato, in poco più di un secolo, in una direzione precisa. Oggi, dall’odiata ma precisa definizione di “medico dei matti” ha un ruolo ampio e diverso, quello di “professionista dalla salute psichica”. La “cura dei sani” è più adatta ai tempi, più breve, meno faticosa, e dà, complessivamente, migliori e più sicuri risultati. Così lo Psicologo oggi, chiusi i manicomi e spesso anche gli studi degli psicanalisti reclama sovente un posto nella scuola e in azienda, dove fa consulenze brevi ma anche orientamento e selezione del personale.

Questa smart-care, una vera clinica della salute psichica, potrà dare nel futuro ampi frutti. Al tempo stesso però ha reso la Psicologia sempre più una questione di interesse generalizzato. Sul piano tecnico ha prodotto o rilanciato esigenze diverse. Dalla cura della nevrosi al superamento dei propri limiti e al potenziamento delle risorse lavorative, personali, sociali. Nascono tecniche strategiche e paradossali, programmazione neurolinguistica, ipnosi. Mai come in questi casi si spingono a livelli estremi i meccanismi suggestivi e manipolativi, che il paziente-utente di un atto comunque etimologicamente clinico, subisce. E mai come in questi casi l’esigenza di tutela della pubblica fede, ovvero della fiducia del cittadino che si rivolge ad un professionista si fa imprescindibile. Sarebbe un grave errore se si usasse la novità degli strumenti per reclamarne una verginità epistemologica; ciò distruggerebbe in brevissimo tempo la fiducia dei cittadini, che non esitano di fronte a queste realtà, aspettandosi una tutela che può essere fornita solo da una ferra iscrizione delle nuove tecniche nell’orizzonte già sufficientemente ampio descritto dalle norme e dalle leggi.

 

Fonte: Osservatorio di Psicologia nei Media

Psicologi o Abusologi?

SEGNALAZIONE

Carissimi colleghi,

mi è capitato di leggere stamattina il seguente articolo che si presenta come interrogazione parlamentare presentata contro  psicologi e psichiatri che si occupano nei tribunali di valutazione del danno di presunte vittime di pedofili. Colui che ha presentato l’interrogazione sostiene che tali figure professionali non solo non siano competenti per tale valutazione, ma aggiunge che  non siano capaci di apportare dati oggettivi, come farebbe invece la criminologia, ma solo dati interpretativi e quindi fallaci.

 

LINK ORIGINALE

http://www.abusologi.com/69

COMMENTO REDAZIONALE A CURA DELLE DR.SSE LORITA TINELLI E SIMONA RUFFINI

La segnalazione ricevuta ci dà la possibilità di chiarire alcuni punti estremamente importanti (dato soprattutto il campo di applicazione che è quello dell’abuso al minore) relativi a quello che è (o dovrebbe essere) il ruolo dell’esperto psicologo chiamato come consulente o perito. Nell’interrogazione parlamentare segnalata infatti riscontriamo alcune inesattezze proprio relativamente al ruolo delle figure professionali coinvolte e al loro delicatissimo compito.

La prima di queste gravi inesattezze è rappresentata, nell’interrogazione citata, dall’espressione “sempre più fatti di recente cronaca giudiziaria dimostrano come Giudici e pubblici Ministeri fanno sempre più affidamento alle opinioni, perizie e conclusioni di psicologi e psichiatri con l’assunto che grazie alla loro conoscenza sia possibile determinare la colpevolezza o l’innocenza di una persona”. Ci preme infatti precisare che la possibile dimostrazione di colpevolezza è affidata esclusivamente alle prove scaturite dall’attività di investigazione giudiziaria, non certo alle perizie. Inoltre va fatta una sostanziale distinzione tra perizia psichiatrica e perizia psicologica. La perizia psichiatrica infatti viene richiesta allo psichiatra (naturalmente) ed è utilizzata per dimostrare ad esempio una eventuale infermità o seminfermità di mente piuttosto che la compatibilità col sistema carcerario. La perizia psicologica invece non esiste affatto (sull’adulto) essendo espressamente vietata dall’articolo 220 del nostro codice di procedura penale: “Salvo quanto previsto ai fini dell’esecuzione della pena o della misura di sicurezza, non sono ammesse perizie per stabilire l’abitualità o la professionalità nel reato, la tendenza a delinquere, il carattere e la personalità dell’imputato e in genere le qualità psichiche indipendenti da cause patologiche[1]”.

La perizia psicologica invocata nell’interrogazione dunque non può che essere quella richiesta nei casi di presunto abuso non per dimostrare la colpevolezza di chicchessia (non esiste un test di alcun tipo che potrebbe farlo) ma solo e soltanto per la valutazione dell’attendibilità del minore che racconta i fatti.

Questo punto va chiarito con forza poiché altrimenti si diffonderebbe una pericolosa credenza in qualche tipo di potere magico affidato agli psicologi che è ciò che trapela dalle giuste preoccupazioni espresse nell’interrogazione.

L’altra grave inesattezza riscontrata nell’interrogazione è rappresentata dalla seguente frase: “lo stesso sistema, cioè l’uso di perizie psicologiche e psichiatriche usate a quel che consta all’interpellante come uniche prove…”.  Pur accogliendo con molto interesse qualunque critica mossa nell’esclusivo interesse dei minori non possiamo trascurare gli errori sostanziali contenuti in questa interrogazione.  Secondo l’articolo 187 del nostro codice di procedura penale (che chi si occupa di psicologia giuridica e chi critica lo psicologo giuridico deve conoscere), la prova è l’insieme dei fatti che: “si riferiscono all’imputazione, alla punibilità e alla determinazione della pena o della misura di sicurezza [2]”. Le prove soprattutto si formano in dibattimento. Questo vuol dire nella pratica che tutto quanto raccolto nella fase di indagini deve essere “validato” in aula. La perizia (o sarebbe meglio definirla consulenza tecnica per non creare confusione con il lavoro dello psichiatra) è una cosa ancora a parte, non solo perché il giudice potrebbe teoricamente non tenerne conto (seppure nella pratica i consulenti vengono interpellati proprio per aiutare il giudice nel suo libero convincimento) ma soprattutto perché la consulenza non è una prova! Vero è senza dubbio che a volte la notorietà mediatica dei consulenti nominati dilaga a discapito della controparte, ma certamente la consulenza è un aiuto per il giudice, non certamente una prova della quale egli debba tener conto.

L’altro punto saliente dell’interrogazione riguarda la professionalità degli esperti chiamati in causa. Anche qui riscontriamo alcune generalizzazioni che nuocciono al discorso.  La frase in questione è la seguente: “mentre in Italia è chiaro a tutti che per opere d’ingegneria occorre l’ingegnere, non lo è, invece, per la criminologia; posto che ad occuparsi di crimini non è il criminologo clinico…ma lo psicologo, lo psichiatra, l’assistente sociale, eccetera”. Purtroppo a causa della sovraesposizione a telefilm di ogni sorta o a sedicenti criminologi che impazzano anche nel nostro paese,  occorre anche qui fare una chiara e netta distinzione tra le figure professionali chiamate in causa.  Lo psicologo non si occupa di crimini, si occupa di psicologia, lo psichiatra non si occupa di crimini ma di medicina, il sociologo potrebbe occuparsi di crimini nel caso in cui effettuasse un’analisi appunto sociologica del fenomeno ma non ci risulta che ad un sociologo venga affidata una consulenza tecnica attraverso la quale dimostrare l’attendibilità di un minore. Il criminologo di cosa si occupa? Ecco, forse questo è il nocciolo della questione. Su questo accogliamo in pieno la perplessità espressa nell’interrogazione, non certo riferita allo psicologo serio, esperto, preparato, ma verso tutte quelle figure ibride che hanno specializzazioni inesistenti o inutili. Questo perchè un criminologo (qualunque cosa voglia dire) non entra in tribunale a verificare l’attendibilità della testimonianza di un bambino se non è uno psicologo serio, preparato, formato. Dunque semmai l’attenzione andrebbe posta alle competenze dello psicologo specificamente formato in questo campo e in collaborazione con lo psichiatra, uniche figure deontologicamente e professionalmente preposte.  A tale proposito i suddetti hanno come guida delle linee emanate dai propri ordini di riferimento in materia, alle quali si appellano e che li indirizzano proprio nel delicatissimo campo dell’abuso al minore.  Più che invocare il criminologo (poiché a tutt’oggi tale figura non esiste nemmeno professionalmente) sarebbe meglio (per il minore stesso) verificare e rafforzare le competenze degli psicologi che già fanno, nella maggior parte dei casi egregiamente, tale lavoro. Perché nei casi di presunto abuso ai minori il consulente non si occupa del criminale o del crimine, ma della vittima. E lo psicologo (se preparato), così come lo psichiatra, sono sicuramente più che adeguati.

 

PARERE A CURA DEL PROF. SAVERIO ABRUZZESE

Premessa: tutte le indagini epidemiologiche hanno accertato che sul tema degli abusi sessuali c’è un’impressionante diffusione del fenomeno, una disarmante scarsità di denunce ed una sconfortante esiguità delle condanne.

Davanti ad un fenomeno così sommerso dobbiamo porci alcune inquietanti domande: di fronte alla necessità di alzare il tiro contro la violenza sui minori è più accettabile correre il rischio che un adulto innocente venga condannato o che un minore vittima non venga creduto? È una domanda scomoda, anche perché fa riferimento ad una logica guerrafondaia in cui si usa fare previsioni sulle vittime di un conflitto. Ma questo clima si avverte. Inutile soffermarci sul fatto che un innocente non dovrebbe essere condannato e che un minore non dovrebbe essere ritenuto a priori attendibile, ma la verità è che le armi a disposizione dell’imputato sono molte di più di quelle di una vittima bambino. È una lotta impari e noi abbiamo il dovere – o per lo meno dovremmo sentirlo – di aiutare e sostenere il più debole. Questo non significa perdere la neutralità o schierarsi. Ma sappiamo benissimo come le verità processuali siano più difficilmente dimostrabili delle verità cliniche. E vorrei anche uscire al più presto da questa logica militaresca, perché non è edificante parlare di una guerra di adulti contro bambini. Gli avvocati degli abusanti per contratto devono difendere i loro clienti, ma ci sarà un modo per farlo senza ritenere i bambini irrimediabilmente inattendibili, fantasiosi, bugiardi, etc.

Se continuiamo ancora a vivere in questo clima di contrapposizione fra operatori del diritto schierati dalla parte degli adulti e operatori psicosociali schierati dalla parte dei bambini non cresceremo. Né noi, né loro.

Probabilmente non abbiamo ancora metabolizzato la violenza e abbiamo qualche difficoltà a fondare la cultura dell’antiviolenza. Abbiamo bisogno di continuare a parlarne e confrontarci, per evitare di inciampare nella pietra dello scandalo.

Una certa cautela è necessaria, non lo metto in dubbio, in considerazione del fatto che c’è un aumento di false denunce e di strumentalizzazioni della violenza sessuale nei procedimenti di separazione, ma la cautela non deve trasformarsi in omertà.

Abbiamo acquisito che gli indicatori dell’abuso sono aspecifici, ma la contemporanea comparsa di più fattori dovrebbe insospettire: la distrazione a scuola, le difficoltà di apprendimento, l’isolamento, una condotta erotizzata precoce, segni fisici inequivocabili, comportamenti bizzarri, compiti in classe o letterine alle insegnanti, etc.

L’Unione delle Camere Penali, invocando i principi del giusto processo, insiste sulla necessità della videoregistrazione integrale delle dichiarazioni del minore fin dalle fasi iniziali dell’indagine e sulla opportunità dell’esame e controesame del minore, comunque tutelandolo, ma assicurando anche i diritti dell’imputato. La verità è che non si tutela un minore costringendolo a ripetere la stessa storia, a rivivere il trauma subito. Una bambina costretta a ripetere sempre la stessa storia può iniziare a dubitare di non essere creduta e quindi rifiutarsi di parlare. Gli avvocati non aspettano altro. Ma questa non è una ritrattazione. È un’ulteriore forma di violenza sulla vittima.

La quale deve anche subire i tempi del processo, in cui si garantiscono i diritti dell’imputato, ma non alla stesso modo quelli della vittima. Più volte mi è capitato di attendere che il procedimento penale a carico dell’abusante si definisse per poter ascoltare il minore in merito ad interventi civili di protezione e tutela.

L’AIMMF (Associazione Italiana dei Magistrati per i Minorenni e per la Famiglia), in un documento [3] datato 8/3/2008, ha riaffermato decisamente che “gli interventi di cura, psicologici ed educativi, non possono essere né rinviati né subordinati in relazione ai tempi del processo penale, ad esigenze di segretezza e alle garanzie dell’indagato o imputato già previste dalla legge; curare un bambino che sta male non può mai ledere diritti altrui”.

In merito all’audizione protetta del minore, lo stesso documento afferma che “l’ascolto del minore vittima in ogni sede, compresa quella giudiziaria, non può che essere condotto con modalità empatiche adeguate alle sue modalità espressive e di verbalizzazione; egli va ascoltato tenendo conto delle sue possibilità e capacità di racconto. Il documento fa anche riferimento alla necessità che il minore-vittima sia sempre seguito nei percorsi giudiziari civile e penale da un’unica figura di accompagnamento nella persona del curatore speciale “che non lo lasci solo; lo informi, lo conduca e accompagni al processo, gli nomini se del caso un difensore specializzato” ed infine auspica che i magistrati che si occupano di questa materia siano adeguatamente preparati e formati.

In definitiva abbiamo da un lato alcuni professionisti seriamente interessati alla tutela del minore, decisamente impegnati nell’impedire alla vittima una vittimizzazione secondaria, che è quella degli ascolti ripetuti e della violenza della macchina giudiziaria; ci sono poi altri professionisti che utilizzano i loro saperi per mettere in dubbio la credibilità di una bambina abusata, spiegando ai magistrati che le risposte date ad un test proiettivo non costituiscono una prova, anche perché sono confutabili. In questa polemica fra specialisti delle scienze umane si inseriscono volentieri gli avvocati; per il momento ci sono i penalisti che hanno tutto l’interesse nell’invalidare le dichiarazioni di un minore vittima, ma è prevedibile che fra un po’ anche i curatori speciali faranno sentire la loro voce per schierarsi, presumibilmente, dalla parte del minore vittima e testimone.

Non vorrei correre il rischio di apparire fazioso. Mi sembra inevitabile che gli avvocati difendano il loro cliente, ma non si può dire che questa diritto alla difesa si fondi sull’interesse del minore. Il giusto processo non può trasformarsi in un’altra violenza sui minori.

E non trascuriamo – infine – un altro conflitto spesso presente sui nostri giornali: la destra chiede pene più severe, ronde cittadine, maggiore sicurezza, etc.; la sinistra chiede una maggiore attenzione all’educazione all’affettività, una maggiore prevenzione, la rieducazione del reo. Le richieste non sono incompatibili, al contrario “devono” diventare compatibili. La sicurezza dei cittadini e dei bambini in particolare, non può essere oggetto di polemiche. È impensabile che la destra risulti più attenta ai bisogni del cittadino, mentre le sinistra a quelli dei delinquenti. Non ha senso. Sono molto preoccupato che l’attività delle ronde per strada possano trasformarsi in giustizia privata. Sono stufo di questa abitudine, tutta italiana, di polarizzare il dibattito sui temi dell’antiviolenza.

Alcuni operatori psicosociali si impegnano nel dimostrare che un minore è inattendibile, altri prendono per oro colato tutto quello che esce dalla bocca di un bambino. Alcuni vorrebbero l’inasprimento delle pene e la giustizia fai da te, altri sostengono che solo con un trattamento sull’abusante si evitano i rischi della recidiva.

Perché non diciamo semplicemente che il bambino va ascoltato con molta attenzione, non dando per scontato che dica la verità, ma senza accanirci nel dimostrare in mala fede la sua inattendibilità. Una maggiore severità nel punire questi reati è condivisibile, ma evitando la giustizia privata ed i linciaggi, che per la verità, in questi ultimi tempi, diventano sempre più frequenti. L’antiviolenza è e deve essere soprattutto una prova di civiltà.

Non mi sembra il caso di litigare anche su questo. Non si può litigare sull’antiviolenza. È un controsenso.

Un discorso a parte è quello che riguarda i presunti abusi successivi alla separazione dei genitori. In questo caso la responsabilità del genitore affidatario che denuncia l’abuso è innegabile. Perché se il bambino non ha subito violenza sessuale dal genitore non affidatario allora è stato vittima di una violenza psicologica da parte del genitore affidatario. Delle due, una. Instillare in un bambino il dubbio che il padre abbia fatto violenza su di lui significa inevitabilmente comprometterne lo sviluppo affettivo.

Qual è il confine fra i dubbi di una madre e la sua mala fede? I sospetti su un padre che si occupa dell’igiene intima di una figlia sono tali da poter giustificare una denuncia? Sorge il dubbio che in una separazione conflittuale quei sospetti siano funzionali alla eliminazione della figura paterna dalla vita della figlia. Questa eliminazione si consuma sia nel caso che l’abuso ci sia  stato, sia nel caso che non ci sia stato, perché il rapporto di quel padre con la figlia è già inquinato dal sospetto materno.

La violenza sessuale sui minori è caratterizzata dal fatto che il bambino non ha gli strumenti cognitivi ed affettivi per percepire la violenza, almeno in un primo momento. La confusione dei linguaggi rende indecifrabile l’esperienza traumatica; ma nei casi di false denunce da parte di genitori separati è come se tutto fosse svelato prima del tempo, costringendo il bambino a riferire e a fare proprie cose che non avrebbe mai sospettato. “Come ti tocca papà?”, “Dove di tocca?”. Il tarlo del dubbio è instillato.

Sul versante opposto ci sono genitori che ritengono i figli troppo piccoli per capire. Di fronte alla violenza assistita spesso si adduce questo tipo di giustificazione: “Non pensavamo che capisse quello che stava succedendo, è troppo piccolo …”, “Chi avrebbe mai immaginato…”

Lo stesso pretesto viene utilizzato nei casi di corruzione di minorenne, quando il bambino assiste ad atti sessuali dei genitori; anche in questo caso il bambino è troppo piccolo per capire.

Insomma, ci sono casi in cui il bambino è troppo piccolo per capire, ed altri in cui è abbastanza grande non solo per capire, ma anche di riferire nel processo.

La capacità di un bambino di capire e riferire dipende dall’obiettivo che vuole raggiungere il genitore: screditare l’ex coniuge o coprirlo. Nel primo caso il bambino viene invitato a riferire, nel secondo a tacere. Nel primo caso a riferire quello che non è successo. Nel secondo a tacere quello che è successo.

Segnaliamo subito un problema: interesse della giustizia è scoprire la verità, l’interesse del minore consiste nel tutelarlo. Non sempre questi due interessi sono compatibili. Spesso accade che il prevalere dell’uno comprometta l’altro. Compito degli operatori dell’antiviolenza è quello di rendere questi due interessi il più possibile compatibili, se non addirittura sovrapponibili.

Un ascolto protetto condotto male può trasformarsi in un’incomprensibile violenza sul minore abusato, ma se fatto bene, ha un effetto catartico, aiuta il processo di svelamento, non costituisce un ulteriore trauma.

Il bambino nel processo è un argomento molto delicato e ricco di implicazioni metodologiche che vanno approfondite. Siamo tutti d’accordo sul fatto che le capacità empatiche di chi ascolta favorisca l’ascolto del minore, ma c’è il rischio che proprio questa empatia si traduca in una sorta di alleanza fra ascoltatore ed ascoltato, che induca quest’ultimo a compiacere il primo. C’è il rischio, insomma, che la capacità empatica si trasformi da risorsa in limite nella misura in cui invece di ottenere la verità suggerisce le risposte. Dietro questo dubbio si cela un’altra domanda inquietante: stiamo disquisendo sulla inattendibilità del bambino o dell’impreparazione di chi ascolta o peggio della sua mala fede? Utilizzare la capacità empatica per suggerire le risposte attiene alla inadeguatezza di chi ascolta, non all’inattendibilità del minore. E non dimentichiamo che convincere un bambino a riferire quello che non è gli è successo significa comunque fargli violenza perché il suo rapporto con il genitore accusato ingiustamente è definitivamente compromesso. Ma anche costringerlo a ritrattare una violenza subita costituisce un’ulteriore forma – la peggiore – di violenza sulla vittima.

Se sussiste il rischio che il bambino testimone compiaccia l’intervistatore empatico, significa che dobbiamo rinunciare all’empatia e scegliere una modalità d’ascolto più fredda e neutrale? Essere neutrale significa essere freddi? Perché la neutralità deve essere associata alla freddezza? Si può essere neutrali e caldi? O se si è caldi si suggeriscono le risposte?

Queste domande non mi piacciono, perché mettono al primo posto un presunto interesse della giustizia su quello del minore abusato. Mettere a proprio agio un bambino non può costituire un ostacolo al corso della giustizia, né tanto meno è ammissibile che un procedimento penale a carico di un abusante prenda il sopravvento sui provvedimenti cautelari in favore di un minore. Eppure mi è successo che per espletare una consulenza tecnica d’ufficio disposta dal Tribunale per i minorenni ho dovuto aspettare per più di un anno che si concludessero le indagini disposte dal PM sui presunti abusanti.

Ma torniamo al bambino testimone.

Fra domande suggestive e risposte indotte, falsi ricordi, assecondamenti e confabulazione la testimonianza del minore diventa uno dei temi più scottanti e affascinanti della psicologia giuridica.

Ricordiamo che la capacità “fisica e mentale” a testimoniare può costituire il quesito di una consulenza tecnica, mentre l’attendibilità dovrebbe essere una valutazione del magistrato.

Pertanto idoneità a testimoniare e attendibilità non rappresentano la stessa capacità. Essere in grado di riferire l’accaduto non significa che si riferisca la verità. Le categorie della competenza, della credibilità e dell’accuratezza del ricordo sono elementi che contribuiscono a stabilire il contenuto di un ricordo, ma come si può tenere così rigorosamente separati la verità processuale dal ricordo dell’evento traumatico? L’elemento processuale dal dato clinico? Un minore abusato avrà pure il diritto di rimuovere il trauma, ma questa non è ritrattazione. Rimozione o ritrattazione? Sarebbe un bel quesito, in cui il perito dovrebbe attribuire ad un processo psicologico un significato giuridico.

I bambini – comunque – sono più attendibili di quello che alcuni difensori vorrebbero far credere. Abbiamo detto che la valutazione dell’attendibilità non dovrebbe essere un accertamento tecnico. Ma c’è un modo per aggirare l’ostacolo: una consulenza sulla coerenza interna di quanto dichiarato dal minore è un modo molto elegante per far coincidere capacità a testimoniare, valutata dal perito ad attendibilità, che dovrebbe essere valutata dal magistrato.

Non è facile districarsi in questi concetti al confine fra il diritto e la psicologia, non lo è mai stato, ma dobbiamo avere il coraggio di ammettere che quello che il bambino rivela dipende sia dal gioco delle proiezioni del bambino in chi ascolta, ma anche di quest’ultimo nei confronti del bambino e del suo abusante. L’esperto costruisce insieme al bambino la verità processuale e pertanto è necessaria la sua totale buona fede. In questo senso va interpretata la sua neutralità: la capacità di non farsi condizionare dalle indagini svolte e dalle aspettative di magistrati e avvocati, ma di concentrarsi solo sul mondo del bambino.

Non è affatto facile, soprattutto quando la vittima è un disabile. Il bambino disabile più facilmente diventa vittima dell’abusante, ha quasi il doppio di probabilità di diventare vittima rispetto ai bambini senza disabilità. L’abusante sa scegliere le sue vittime. Ma questo rende ancora più complesso il problema processuale dell’attendibilità e della capacità a testimoniare. Un altro vantaggio per l’abusante.

Compito dell’operatore dell’antiviolenza pertanto è quello di facilitare la testimonianza delle vittime. In altri termini, il modo migliore per combattere la violenza è quella di rendere attendibili e capaci di testimoniare le vittime, sia i minori sia i disabili.

Non dobbiamo porci il problema se i minori siano o non siano attendibili e capaci di testimoniare, ma come renderli attendibili e capaci.

Non dobbiamo farci tentare dalla tentazione verificazionista, cioè di confermare l’ipotesi iniziale del presunto abuso, compiacendo il minore e facendo in modo che lo stesso minore compiaccia il suo intervistatore; ma dobbiamo stare attenti anche alla tentazione falsificazionista, mettendo in difficoltà il minore testimone, per mettere alla prova la sua capacità di testimoniare; anche questa  è un’ulteriore forma di violenza. Il minore non è un’ipotesi da falsificare per verificare la sua attendibilità. Dovremmo stare lontani dalla compiacenza del verificazionismo e dal sadismo del falsificazionismo. Mi viene il dubbio che il conflitto di fondo fra verità processuale ed interesse del minore è viziata dall’inveterata abitudine di confondere la verità processuale con la tutela dell’imputato. D’accordo sul garantismo, ma anche la tutela del minore va garantita. Non anche, soprattutto.

[1] http://www.altalex.com/index.php?idnot=36786

[2] http://www.altalex.com/index.php?idnot=36785

[3] Il documento è pubblicato in Minorigiustizia, n2/2008, pag. 333

 

Fonte: Osservatorio Psicologia nei Media