Psicologi o Abusologi?

SEGNALAZIONE

Carissimi colleghi,

mi è capitato di leggere stamattina il seguente articolo che si presenta come interrogazione parlamentare presentata contro  psicologi e psichiatri che si occupano nei tribunali di valutazione del danno di presunte vittime di pedofili. Colui che ha presentato l’interrogazione sostiene che tali figure professionali non solo non siano competenti per tale valutazione, ma aggiunge che  non siano capaci di apportare dati oggettivi, come farebbe invece la criminologia, ma solo dati interpretativi e quindi fallaci.

 

LINK ORIGINALE

http://www.abusologi.com/69

COMMENTO REDAZIONALE A CURA DELLE DR.SSE LORITA TINELLI E SIMONA RUFFINI

La segnalazione ricevuta ci dà la possibilità di chiarire alcuni punti estremamente importanti (dato soprattutto il campo di applicazione che è quello dell’abuso al minore) relativi a quello che è (o dovrebbe essere) il ruolo dell’esperto psicologo chiamato come consulente o perito. Nell’interrogazione parlamentare segnalata infatti riscontriamo alcune inesattezze proprio relativamente al ruolo delle figure professionali coinvolte e al loro delicatissimo compito.

La prima di queste gravi inesattezze è rappresentata, nell’interrogazione citata, dall’espressione “sempre più fatti di recente cronaca giudiziaria dimostrano come Giudici e pubblici Ministeri fanno sempre più affidamento alle opinioni, perizie e conclusioni di psicologi e psichiatri con l’assunto che grazie alla loro conoscenza sia possibile determinare la colpevolezza o l’innocenza di una persona”. Ci preme infatti precisare che la possibile dimostrazione di colpevolezza è affidata esclusivamente alle prove scaturite dall’attività di investigazione giudiziaria, non certo alle perizie. Inoltre va fatta una sostanziale distinzione tra perizia psichiatrica e perizia psicologica. La perizia psichiatrica infatti viene richiesta allo psichiatra (naturalmente) ed è utilizzata per dimostrare ad esempio una eventuale infermità o seminfermità di mente piuttosto che la compatibilità col sistema carcerario. La perizia psicologica invece non esiste affatto (sull’adulto) essendo espressamente vietata dall’articolo 220 del nostro codice di procedura penale: “Salvo quanto previsto ai fini dell’esecuzione della pena o della misura di sicurezza, non sono ammesse perizie per stabilire l’abitualità o la professionalità nel reato, la tendenza a delinquere, il carattere e la personalità dell’imputato e in genere le qualità psichiche indipendenti da cause patologiche[1]”.

La perizia psicologica invocata nell’interrogazione dunque non può che essere quella richiesta nei casi di presunto abuso non per dimostrare la colpevolezza di chicchessia (non esiste un test di alcun tipo che potrebbe farlo) ma solo e soltanto per la valutazione dell’attendibilità del minore che racconta i fatti.

Questo punto va chiarito con forza poiché altrimenti si diffonderebbe una pericolosa credenza in qualche tipo di potere magico affidato agli psicologi che è ciò che trapela dalle giuste preoccupazioni espresse nell’interrogazione.

L’altra grave inesattezza riscontrata nell’interrogazione è rappresentata dalla seguente frase: “lo stesso sistema, cioè l’uso di perizie psicologiche e psichiatriche usate a quel che consta all’interpellante come uniche prove…”.  Pur accogliendo con molto interesse qualunque critica mossa nell’esclusivo interesse dei minori non possiamo trascurare gli errori sostanziali contenuti in questa interrogazione.  Secondo l’articolo 187 del nostro codice di procedura penale (che chi si occupa di psicologia giuridica e chi critica lo psicologo giuridico deve conoscere), la prova è l’insieme dei fatti che: “si riferiscono all’imputazione, alla punibilità e alla determinazione della pena o della misura di sicurezza [2]”. Le prove soprattutto si formano in dibattimento. Questo vuol dire nella pratica che tutto quanto raccolto nella fase di indagini deve essere “validato” in aula. La perizia (o sarebbe meglio definirla consulenza tecnica per non creare confusione con il lavoro dello psichiatra) è una cosa ancora a parte, non solo perché il giudice potrebbe teoricamente non tenerne conto (seppure nella pratica i consulenti vengono interpellati proprio per aiutare il giudice nel suo libero convincimento) ma soprattutto perché la consulenza non è una prova! Vero è senza dubbio che a volte la notorietà mediatica dei consulenti nominati dilaga a discapito della controparte, ma certamente la consulenza è un aiuto per il giudice, non certamente una prova della quale egli debba tener conto.

L’altro punto saliente dell’interrogazione riguarda la professionalità degli esperti chiamati in causa. Anche qui riscontriamo alcune generalizzazioni che nuocciono al discorso.  La frase in questione è la seguente: “mentre in Italia è chiaro a tutti che per opere d’ingegneria occorre l’ingegnere, non lo è, invece, per la criminologia; posto che ad occuparsi di crimini non è il criminologo clinico…ma lo psicologo, lo psichiatra, l’assistente sociale, eccetera”. Purtroppo a causa della sovraesposizione a telefilm di ogni sorta o a sedicenti criminologi che impazzano anche nel nostro paese,  occorre anche qui fare una chiara e netta distinzione tra le figure professionali chiamate in causa.  Lo psicologo non si occupa di crimini, si occupa di psicologia, lo psichiatra non si occupa di crimini ma di medicina, il sociologo potrebbe occuparsi di crimini nel caso in cui effettuasse un’analisi appunto sociologica del fenomeno ma non ci risulta che ad un sociologo venga affidata una consulenza tecnica attraverso la quale dimostrare l’attendibilità di un minore. Il criminologo di cosa si occupa? Ecco, forse questo è il nocciolo della questione. Su questo accogliamo in pieno la perplessità espressa nell’interrogazione, non certo riferita allo psicologo serio, esperto, preparato, ma verso tutte quelle figure ibride che hanno specializzazioni inesistenti o inutili. Questo perchè un criminologo (qualunque cosa voglia dire) non entra in tribunale a verificare l’attendibilità della testimonianza di un bambino se non è uno psicologo serio, preparato, formato. Dunque semmai l’attenzione andrebbe posta alle competenze dello psicologo specificamente formato in questo campo e in collaborazione con lo psichiatra, uniche figure deontologicamente e professionalmente preposte.  A tale proposito i suddetti hanno come guida delle linee emanate dai propri ordini di riferimento in materia, alle quali si appellano e che li indirizzano proprio nel delicatissimo campo dell’abuso al minore.  Più che invocare il criminologo (poiché a tutt’oggi tale figura non esiste nemmeno professionalmente) sarebbe meglio (per il minore stesso) verificare e rafforzare le competenze degli psicologi che già fanno, nella maggior parte dei casi egregiamente, tale lavoro. Perché nei casi di presunto abuso ai minori il consulente non si occupa del criminale o del crimine, ma della vittima. E lo psicologo (se preparato), così come lo psichiatra, sono sicuramente più che adeguati.

 

PARERE A CURA DEL PROF. SAVERIO ABRUZZESE

Premessa: tutte le indagini epidemiologiche hanno accertato che sul tema degli abusi sessuali c’è un’impressionante diffusione del fenomeno, una disarmante scarsità di denunce ed una sconfortante esiguità delle condanne.

Davanti ad un fenomeno così sommerso dobbiamo porci alcune inquietanti domande: di fronte alla necessità di alzare il tiro contro la violenza sui minori è più accettabile correre il rischio che un adulto innocente venga condannato o che un minore vittima non venga creduto? È una domanda scomoda, anche perché fa riferimento ad una logica guerrafondaia in cui si usa fare previsioni sulle vittime di un conflitto. Ma questo clima si avverte. Inutile soffermarci sul fatto che un innocente non dovrebbe essere condannato e che un minore non dovrebbe essere ritenuto a priori attendibile, ma la verità è che le armi a disposizione dell’imputato sono molte di più di quelle di una vittima bambino. È una lotta impari e noi abbiamo il dovere – o per lo meno dovremmo sentirlo – di aiutare e sostenere il più debole. Questo non significa perdere la neutralità o schierarsi. Ma sappiamo benissimo come le verità processuali siano più difficilmente dimostrabili delle verità cliniche. E vorrei anche uscire al più presto da questa logica militaresca, perché non è edificante parlare di una guerra di adulti contro bambini. Gli avvocati degli abusanti per contratto devono difendere i loro clienti, ma ci sarà un modo per farlo senza ritenere i bambini irrimediabilmente inattendibili, fantasiosi, bugiardi, etc.

Se continuiamo ancora a vivere in questo clima di contrapposizione fra operatori del diritto schierati dalla parte degli adulti e operatori psicosociali schierati dalla parte dei bambini non cresceremo. Né noi, né loro.

Probabilmente non abbiamo ancora metabolizzato la violenza e abbiamo qualche difficoltà a fondare la cultura dell’antiviolenza. Abbiamo bisogno di continuare a parlarne e confrontarci, per evitare di inciampare nella pietra dello scandalo.

Una certa cautela è necessaria, non lo metto in dubbio, in considerazione del fatto che c’è un aumento di false denunce e di strumentalizzazioni della violenza sessuale nei procedimenti di separazione, ma la cautela non deve trasformarsi in omertà.

Abbiamo acquisito che gli indicatori dell’abuso sono aspecifici, ma la contemporanea comparsa di più fattori dovrebbe insospettire: la distrazione a scuola, le difficoltà di apprendimento, l’isolamento, una condotta erotizzata precoce, segni fisici inequivocabili, comportamenti bizzarri, compiti in classe o letterine alle insegnanti, etc.

L’Unione delle Camere Penali, invocando i principi del giusto processo, insiste sulla necessità della videoregistrazione integrale delle dichiarazioni del minore fin dalle fasi iniziali dell’indagine e sulla opportunità dell’esame e controesame del minore, comunque tutelandolo, ma assicurando anche i diritti dell’imputato. La verità è che non si tutela un minore costringendolo a ripetere la stessa storia, a rivivere il trauma subito. Una bambina costretta a ripetere sempre la stessa storia può iniziare a dubitare di non essere creduta e quindi rifiutarsi di parlare. Gli avvocati non aspettano altro. Ma questa non è una ritrattazione. È un’ulteriore forma di violenza sulla vittima.

La quale deve anche subire i tempi del processo, in cui si garantiscono i diritti dell’imputato, ma non alla stesso modo quelli della vittima. Più volte mi è capitato di attendere che il procedimento penale a carico dell’abusante si definisse per poter ascoltare il minore in merito ad interventi civili di protezione e tutela.

L’AIMMF (Associazione Italiana dei Magistrati per i Minorenni e per la Famiglia), in un documento [3] datato 8/3/2008, ha riaffermato decisamente che “gli interventi di cura, psicologici ed educativi, non possono essere né rinviati né subordinati in relazione ai tempi del processo penale, ad esigenze di segretezza e alle garanzie dell’indagato o imputato già previste dalla legge; curare un bambino che sta male non può mai ledere diritti altrui”.

In merito all’audizione protetta del minore, lo stesso documento afferma che “l’ascolto del minore vittima in ogni sede, compresa quella giudiziaria, non può che essere condotto con modalità empatiche adeguate alle sue modalità espressive e di verbalizzazione; egli va ascoltato tenendo conto delle sue possibilità e capacità di racconto. Il documento fa anche riferimento alla necessità che il minore-vittima sia sempre seguito nei percorsi giudiziari civile e penale da un’unica figura di accompagnamento nella persona del curatore speciale “che non lo lasci solo; lo informi, lo conduca e accompagni al processo, gli nomini se del caso un difensore specializzato” ed infine auspica che i magistrati che si occupano di questa materia siano adeguatamente preparati e formati.

In definitiva abbiamo da un lato alcuni professionisti seriamente interessati alla tutela del minore, decisamente impegnati nell’impedire alla vittima una vittimizzazione secondaria, che è quella degli ascolti ripetuti e della violenza della macchina giudiziaria; ci sono poi altri professionisti che utilizzano i loro saperi per mettere in dubbio la credibilità di una bambina abusata, spiegando ai magistrati che le risposte date ad un test proiettivo non costituiscono una prova, anche perché sono confutabili. In questa polemica fra specialisti delle scienze umane si inseriscono volentieri gli avvocati; per il momento ci sono i penalisti che hanno tutto l’interesse nell’invalidare le dichiarazioni di un minore vittima, ma è prevedibile che fra un po’ anche i curatori speciali faranno sentire la loro voce per schierarsi, presumibilmente, dalla parte del minore vittima e testimone.

Non vorrei correre il rischio di apparire fazioso. Mi sembra inevitabile che gli avvocati difendano il loro cliente, ma non si può dire che questa diritto alla difesa si fondi sull’interesse del minore. Il giusto processo non può trasformarsi in un’altra violenza sui minori.

E non trascuriamo – infine – un altro conflitto spesso presente sui nostri giornali: la destra chiede pene più severe, ronde cittadine, maggiore sicurezza, etc.; la sinistra chiede una maggiore attenzione all’educazione all’affettività, una maggiore prevenzione, la rieducazione del reo. Le richieste non sono incompatibili, al contrario “devono” diventare compatibili. La sicurezza dei cittadini e dei bambini in particolare, non può essere oggetto di polemiche. È impensabile che la destra risulti più attenta ai bisogni del cittadino, mentre le sinistra a quelli dei delinquenti. Non ha senso. Sono molto preoccupato che l’attività delle ronde per strada possano trasformarsi in giustizia privata. Sono stufo di questa abitudine, tutta italiana, di polarizzare il dibattito sui temi dell’antiviolenza.

Alcuni operatori psicosociali si impegnano nel dimostrare che un minore è inattendibile, altri prendono per oro colato tutto quello che esce dalla bocca di un bambino. Alcuni vorrebbero l’inasprimento delle pene e la giustizia fai da te, altri sostengono che solo con un trattamento sull’abusante si evitano i rischi della recidiva.

Perché non diciamo semplicemente che il bambino va ascoltato con molta attenzione, non dando per scontato che dica la verità, ma senza accanirci nel dimostrare in mala fede la sua inattendibilità. Una maggiore severità nel punire questi reati è condivisibile, ma evitando la giustizia privata ed i linciaggi, che per la verità, in questi ultimi tempi, diventano sempre più frequenti. L’antiviolenza è e deve essere soprattutto una prova di civiltà.

Non mi sembra il caso di litigare anche su questo. Non si può litigare sull’antiviolenza. È un controsenso.

Un discorso a parte è quello che riguarda i presunti abusi successivi alla separazione dei genitori. In questo caso la responsabilità del genitore affidatario che denuncia l’abuso è innegabile. Perché se il bambino non ha subito violenza sessuale dal genitore non affidatario allora è stato vittima di una violenza psicologica da parte del genitore affidatario. Delle due, una. Instillare in un bambino il dubbio che il padre abbia fatto violenza su di lui significa inevitabilmente comprometterne lo sviluppo affettivo.

Qual è il confine fra i dubbi di una madre e la sua mala fede? I sospetti su un padre che si occupa dell’igiene intima di una figlia sono tali da poter giustificare una denuncia? Sorge il dubbio che in una separazione conflittuale quei sospetti siano funzionali alla eliminazione della figura paterna dalla vita della figlia. Questa eliminazione si consuma sia nel caso che l’abuso ci sia  stato, sia nel caso che non ci sia stato, perché il rapporto di quel padre con la figlia è già inquinato dal sospetto materno.

La violenza sessuale sui minori è caratterizzata dal fatto che il bambino non ha gli strumenti cognitivi ed affettivi per percepire la violenza, almeno in un primo momento. La confusione dei linguaggi rende indecifrabile l’esperienza traumatica; ma nei casi di false denunce da parte di genitori separati è come se tutto fosse svelato prima del tempo, costringendo il bambino a riferire e a fare proprie cose che non avrebbe mai sospettato. “Come ti tocca papà?”, “Dove di tocca?”. Il tarlo del dubbio è instillato.

Sul versante opposto ci sono genitori che ritengono i figli troppo piccoli per capire. Di fronte alla violenza assistita spesso si adduce questo tipo di giustificazione: “Non pensavamo che capisse quello che stava succedendo, è troppo piccolo …”, “Chi avrebbe mai immaginato…”

Lo stesso pretesto viene utilizzato nei casi di corruzione di minorenne, quando il bambino assiste ad atti sessuali dei genitori; anche in questo caso il bambino è troppo piccolo per capire.

Insomma, ci sono casi in cui il bambino è troppo piccolo per capire, ed altri in cui è abbastanza grande non solo per capire, ma anche di riferire nel processo.

La capacità di un bambino di capire e riferire dipende dall’obiettivo che vuole raggiungere il genitore: screditare l’ex coniuge o coprirlo. Nel primo caso il bambino viene invitato a riferire, nel secondo a tacere. Nel primo caso a riferire quello che non è successo. Nel secondo a tacere quello che è successo.

Segnaliamo subito un problema: interesse della giustizia è scoprire la verità, l’interesse del minore consiste nel tutelarlo. Non sempre questi due interessi sono compatibili. Spesso accade che il prevalere dell’uno comprometta l’altro. Compito degli operatori dell’antiviolenza è quello di rendere questi due interessi il più possibile compatibili, se non addirittura sovrapponibili.

Un ascolto protetto condotto male può trasformarsi in un’incomprensibile violenza sul minore abusato, ma se fatto bene, ha un effetto catartico, aiuta il processo di svelamento, non costituisce un ulteriore trauma.

Il bambino nel processo è un argomento molto delicato e ricco di implicazioni metodologiche che vanno approfondite. Siamo tutti d’accordo sul fatto che le capacità empatiche di chi ascolta favorisca l’ascolto del minore, ma c’è il rischio che proprio questa empatia si traduca in una sorta di alleanza fra ascoltatore ed ascoltato, che induca quest’ultimo a compiacere il primo. C’è il rischio, insomma, che la capacità empatica si trasformi da risorsa in limite nella misura in cui invece di ottenere la verità suggerisce le risposte. Dietro questo dubbio si cela un’altra domanda inquietante: stiamo disquisendo sulla inattendibilità del bambino o dell’impreparazione di chi ascolta o peggio della sua mala fede? Utilizzare la capacità empatica per suggerire le risposte attiene alla inadeguatezza di chi ascolta, non all’inattendibilità del minore. E non dimentichiamo che convincere un bambino a riferire quello che non è gli è successo significa comunque fargli violenza perché il suo rapporto con il genitore accusato ingiustamente è definitivamente compromesso. Ma anche costringerlo a ritrattare una violenza subita costituisce un’ulteriore forma – la peggiore – di violenza sulla vittima.

Se sussiste il rischio che il bambino testimone compiaccia l’intervistatore empatico, significa che dobbiamo rinunciare all’empatia e scegliere una modalità d’ascolto più fredda e neutrale? Essere neutrale significa essere freddi? Perché la neutralità deve essere associata alla freddezza? Si può essere neutrali e caldi? O se si è caldi si suggeriscono le risposte?

Queste domande non mi piacciono, perché mettono al primo posto un presunto interesse della giustizia su quello del minore abusato. Mettere a proprio agio un bambino non può costituire un ostacolo al corso della giustizia, né tanto meno è ammissibile che un procedimento penale a carico di un abusante prenda il sopravvento sui provvedimenti cautelari in favore di un minore. Eppure mi è successo che per espletare una consulenza tecnica d’ufficio disposta dal Tribunale per i minorenni ho dovuto aspettare per più di un anno che si concludessero le indagini disposte dal PM sui presunti abusanti.

Ma torniamo al bambino testimone.

Fra domande suggestive e risposte indotte, falsi ricordi, assecondamenti e confabulazione la testimonianza del minore diventa uno dei temi più scottanti e affascinanti della psicologia giuridica.

Ricordiamo che la capacità “fisica e mentale” a testimoniare può costituire il quesito di una consulenza tecnica, mentre l’attendibilità dovrebbe essere una valutazione del magistrato.

Pertanto idoneità a testimoniare e attendibilità non rappresentano la stessa capacità. Essere in grado di riferire l’accaduto non significa che si riferisca la verità. Le categorie della competenza, della credibilità e dell’accuratezza del ricordo sono elementi che contribuiscono a stabilire il contenuto di un ricordo, ma come si può tenere così rigorosamente separati la verità processuale dal ricordo dell’evento traumatico? L’elemento processuale dal dato clinico? Un minore abusato avrà pure il diritto di rimuovere il trauma, ma questa non è ritrattazione. Rimozione o ritrattazione? Sarebbe un bel quesito, in cui il perito dovrebbe attribuire ad un processo psicologico un significato giuridico.

I bambini – comunque – sono più attendibili di quello che alcuni difensori vorrebbero far credere. Abbiamo detto che la valutazione dell’attendibilità non dovrebbe essere un accertamento tecnico. Ma c’è un modo per aggirare l’ostacolo: una consulenza sulla coerenza interna di quanto dichiarato dal minore è un modo molto elegante per far coincidere capacità a testimoniare, valutata dal perito ad attendibilità, che dovrebbe essere valutata dal magistrato.

Non è facile districarsi in questi concetti al confine fra il diritto e la psicologia, non lo è mai stato, ma dobbiamo avere il coraggio di ammettere che quello che il bambino rivela dipende sia dal gioco delle proiezioni del bambino in chi ascolta, ma anche di quest’ultimo nei confronti del bambino e del suo abusante. L’esperto costruisce insieme al bambino la verità processuale e pertanto è necessaria la sua totale buona fede. In questo senso va interpretata la sua neutralità: la capacità di non farsi condizionare dalle indagini svolte e dalle aspettative di magistrati e avvocati, ma di concentrarsi solo sul mondo del bambino.

Non è affatto facile, soprattutto quando la vittima è un disabile. Il bambino disabile più facilmente diventa vittima dell’abusante, ha quasi il doppio di probabilità di diventare vittima rispetto ai bambini senza disabilità. L’abusante sa scegliere le sue vittime. Ma questo rende ancora più complesso il problema processuale dell’attendibilità e della capacità a testimoniare. Un altro vantaggio per l’abusante.

Compito dell’operatore dell’antiviolenza pertanto è quello di facilitare la testimonianza delle vittime. In altri termini, il modo migliore per combattere la violenza è quella di rendere attendibili e capaci di testimoniare le vittime, sia i minori sia i disabili.

Non dobbiamo porci il problema se i minori siano o non siano attendibili e capaci di testimoniare, ma come renderli attendibili e capaci.

Non dobbiamo farci tentare dalla tentazione verificazionista, cioè di confermare l’ipotesi iniziale del presunto abuso, compiacendo il minore e facendo in modo che lo stesso minore compiaccia il suo intervistatore; ma dobbiamo stare attenti anche alla tentazione falsificazionista, mettendo in difficoltà il minore testimone, per mettere alla prova la sua capacità di testimoniare; anche questa  è un’ulteriore forma di violenza. Il minore non è un’ipotesi da falsificare per verificare la sua attendibilità. Dovremmo stare lontani dalla compiacenza del verificazionismo e dal sadismo del falsificazionismo. Mi viene il dubbio che il conflitto di fondo fra verità processuale ed interesse del minore è viziata dall’inveterata abitudine di confondere la verità processuale con la tutela dell’imputato. D’accordo sul garantismo, ma anche la tutela del minore va garantita. Non anche, soprattutto.

[1] http://www.altalex.com/index.php?idnot=36786

[2] http://www.altalex.com/index.php?idnot=36785

[3] Il documento è pubblicato in Minorigiustizia, n2/2008, pag. 333

 

Fonte: Osservatorio Psicologia nei Media