Nuovo libro sulla manipolazione mentale

IN USCITA

“GASLIGHTING – LA PIÙ SUBDOLA TECNICA DI MANIPOLAZIONE PSICOLOGICA.”

AUTORI: Avv. Mara Scatigno, Avv. Lorenzo Puglisi e Dott.ssa Lorita Tinelli Psicologa

CASA EDITRICE: Edizioni Giuridiche Oristano

LIBRO CARTACEO €.20,00
EBOOK €.15,00

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Genitori ad ogni costo?

SEGNALAZIONE
Gentili colleghi, ho letto l’articolo di qualche mese fa dal titolo ‘Genitori troppo anziani’: tolta la figlia di sedici mesi a una coppia di Mirabello.
Nell’articolo si faceva riferimento ad una sentenza che toglieva una bambina ai suoi genitori in quanto troppo in là con gli anni e quindi, potenzialmente non in grado di sostenerla nella crescita. La sentenza puntava il dito anche contro l’abuso del progresso in materia generica, in quanto possibilità che “se spinta oltre certi limiti si fonda sulla volontà di onnipotenza, sul desiderio di soddisfare a tutti i costi i propri bisogni che necessariamente implicano l´accantonamento delle leggi di natura e una certa indifferenza rispetto alla prospettiva del bambino”.
Lettera firmata

 

ARTICOLO ORIGINALE
http://www.casalenews.it/notizia/cronaca/2011/09/16/genitori-troppo-anziani-tolta-la-figlia-di-sedici-mesi-a-una-coppia-di-mirabello/adozione-tribunale%20minori-mirabello%20monferrato-fecondazione/c52d4e0bff5e201c7f0713822e423b6b

COMMENTO REDAZIONALE A CURA DELLA DR.SSA LORITA TINELLI

I vostri figli non sono i vostri figli.
Sono i figli e le figlie della brama che la Vita ha di sé.
Essi non provengono da voi, ma per tramite vostro,
E benché stiano con voi non vi appartengono.
Potete dar loro il vostro amore ma non i vostri pensieri,
Perché essi hanno i propri pensieri.
Potete alloggiare i loro corpi ma non le loro anime,
Perché le loro anime abitano nella casa del domani, che voi non potete visitare, neppure in sogno.
Potete sforzarvi d’essere simili a loro, ma non cercate di renderli simili a voi.
Perché la vita non procede a ritroso e non perde tempo con ieri.
Voi siete gli archi dai quali i vostri figli sono lanciati come frecce viventi.
L’Arciere vede il bersaglio sul sentiero dell’infinito,
e con la Sua forza vi tende affinché le Sue frecce vadano rapide e lontane.
Fatevi tendere con gioia dalla mano dell’Arciere;
Perché se Egli ama la freccia che vola, ama ugualmente l’arco che sta saldo.
Kahlil Gibran – Il profeta

La storia pubblicata dai media ha sollecitato tante riflessioni.
La gente comune si è chiesta se il Tribunale dei minori non sia intervenuto in maniera troppo rigida, seppur motivato dall’urgenza del dover tutelare la minore, e forse trascurando tutte le dinamiche di una vicenda così complessa. Ma si è anche discusso molto del bisogno della genitorialità “ad ogni costo”.  Quello che, negli ultimi tempi, fa tanto parlare anche il mondo del gossip, per via delle tante star divenute mamme oltre i 50.
I media hanno fatto risaltare l’enorme differenza di età esistente sia tra i partner della nostra storia sia tra loro e la bambina come il problema più difficile da accettare da parte della comunità. Lo stesso tribunale difatti ha parlato di ‘volontà di onnipotenza, sul desiderio di soddisfare a tutti i costi i propri bisogni che necessariamente implicano l´accantonamento delle leggi di natura e una certa indifferenza rispetto alla prospettiva del bambino, in riferimento alla scelta di procreazione artificiale dei due coniugi.
Lungi da voler entrare nel merito di una storia che personalmente non conosco, le mie riflessioni partono da un assunto più generale.  Si è certi che ad un minore sarà assicurato sempre un futuro migliore, estrapolandolo da quelle che sono le sue origini e inserendolo in un altro contesto familiare? Si è certi che in un caso del genere il pregiudizio ‘della genitorialità ad ogni costo non abbia avuto influenza su quella che poi è stata la presa di posizione del Tribunale dei minori?
In un libro pubblicato lo scorso anno dalla collega Vania Valoriano  (2011), da cui ho ripreso il titolo per il mio commento, sono state evidenziate le risultanze psicologiche, mediche e sociali dei mancati passaggi generazionali, per esempio  quelli da figlia a madre, da figlio a padre e da coppia a genitori. Quanto più questi mancati passaggi sono dovuti a limiti dei tempi biologi propri della donna,  tanto da impedirle di vivere a lungo l’idea e la speranza di un concepimento, tanto più diventano dolorosi e difficili da elaborare.
L’assenza di concepimento è il più delle volte un problema di sofferenza o meglio, come sottolinea Carlo Flamigni (1994), comporta diversi tipi di sofferenza riscontrabili in tutte le coppie sterili, ma ciascuno di essi è unico e non confrontabile. Menning (1975) parla addirittura di una sorta di “crisi di vita” che coinvolge l’individuo e la coppia su diversi piani, dando luogo a vissuti di frustrazione, stress, inadeguatezze e perdite.
Diverse ricerche realizzate su campioni di coppie in trattamento di fecondazione assistita hanno evidenziato nelle stesse coppie la presenza di una carica emotiva troppo elevata, durante il trattamento. Tale carica emotiva rendeva ancora più difficile l’accettazione del fallimento e quindi la rinnovata sperimentazione di un mancato passaggio generazionale, col rischio di esserne sopraffatti. Tali risultati inducono a riflettere sull’importanza di intensificare gli sforzi di accoglienza e di informazione da parte dei tecnici sin dalle prime fasi preparatorie del programma di procreazione assistita, ma soprattutto evidenziano l’importante di un sostegno psicologico costante, utile all’elaborazione delle ansie e delle paure sottostanti (Dennerstein e Morse, 1988; Callan e Hennessey, 1989). Non solo, ma in tale contesto il supporto psicologico può essere letto anche come uno strumento di diagnosi e di prevenzione delle sequele psicologiche e psicosessuali (Link e Darling, 1986). Altro obiettivo della consulenza psicologica è quello di identificare le situazioni a rischio, selezionando per ogni singola coppia l’intervento più appropriato, proprio come avviene in maniera obbligata in altri Paesi.
Rispettando  il servizio di tutela dei minori che viene esercitato dai Tribunali, ritengo importante, data la premessa, la garanzia, mediante un’azione preventiva, di sensibilizzazione e di informazione costante, anche del diritto delle coppie sterili, affinché, nel momento in cui possono sperimentare la loro genitorialità lo sappiano fare in maniera ‘sufficientemente buona’, per realizzare quell’importante passaggio generazionale  e non solo per il bisogno di un figlio ad ogni costo.

 

BIBLIOGRAFIA
Cagnazzo G., Fecondazione artificiale: aspetti clinici e di tecnica, in Atti del III Congresso Nazionale e Workshops di Formazione della Società Italiana per la Ricerca e la Formazione in Sessuologia, Bari, 1988, Ies Mercury Editoria, Roma.
Capitanio G.L., Curotto R., Diagnosi di sterilità e l’impatto sulla sessualità della coppia, in Atti del XIII Congresso della Società Italiana di Sessuologia Clinica, Modena, 1993, CIC Edizioni Internazionali, Roma.
D’Ambrogio G., Nappi R.E., Tarabusi M., Fioroni L., Genazzani A.R., La riuscita o il fallimento della fecondazione e le sue ripercussioni sulla vita della coppia, in Atti del XIII Congresso della Società Italiana di Sessuologia Clinica, Modena, 1993, CIC Edizioni Internazionali, Roma.
Di Francesco G., Sessualità nella coppia sterile, Rivista Sessuologia, 14, 1990, 266-269.
Di Francesco G., Fecondazione assistita, Rivista Sessuologia, 14, 1990, 270-273.
Gentili P., Franzese A., Valutazione dei meccanismi di difesa in un campione di coppie infertili, Rivista Sessuologia, 1991, 15 (1), 1991, 31-36.
Flamigni Carlo, I laboratori della felicità. La cura della sterilità tra successi e delusioni. Bompiani, 1994
Manara F., Boscia F.M., Figli desiderati?, in Atti del III Congresso Nazionale e Workshops di Formazione della Società Italiana per la Ricerca e la Formazione in Sessuologia, Bari, 1988, Ies Mercury Editoria, Roma.
Menning B.E., The infertile couple: a plan for advocacy, Child Welfare, 54, 1975, 454-460.
Simonelli C., Concepimento senza sessualità, Il Diritto della Famiglia e delle Persone, luglio-dic. 1987, 1449-1465.
Valoriano Vania, Genitori ad ogni costo. Carocci, 2011
Venturini R., Simonelli C., Acocella A.M., Le nuove tecniche di fecondazione: paternità e maternità in un mondo che cambia, Lo Psicologo, 3, 1986, 50-54.

 

PARERE DEL DR. MARIO RUSSO
Di fronte alla vicenda, riportata nell’articolo segnalato, dei due coniugi di Mirabello la cui figlia è stata dichiarata adottabile dal Tribunale per i minorenni di Torino è immediata la tentazione a schierarsi pro o contro qualcuno dei protagonisti, criticando o approvando la sentenza del tribunale, talvolta sulla base di conoscenze necessariamente incomplete e di parte.
Proveremo, al contrario, a proporre alcune considerazioni che possano essere utili anche in occasioni analoghe,  andando al di là del caso specifico rispetto al quale le valutazioni conclusive vanno fatte nelle sedi proprie e sulla base degli atti raccolti.
1. Il caso dei coniugi di Mirabello negli ultimi anni si è presentato all’attenzione dei mass media in più occasioni e sotto diverse configurazioni, provocando ogni volta appassionati e aspri dibattiti. Per esempio:
in occasione della nascita della figlia (maggio 2010), attraverso il ricorso all’estero alla procreazione assistita eterologa, in considerazione dell’età avanzata dei due genitori;
a seguito della sentenza di adottabilità da parte del TM di Torino (settembre 2011), anche in questo caso posta in relazione da parte dei media con l’età dei protagonisti;
in prossimità dell’udienza preliminare (prevista per febbraio 2012) nel processo penale istruito contro i due coniugi per l’ipotesi di reato di abbandono di minore: probabilmente a questa imminente evenienza è legata la ricomparsa di vecchi articoli sul caso.
L’interesse costantemente rinnovato da parte dei mezzi di comunicazione di massa è certamente segno che questa storia contiene motivi e tematiche che toccano la nostra sensibilità e le nostre convinzioni più profonde sulla genitorialità e sulla cura verso l’infanzia.
2. E’ necessario ad ogni modo ampliare e arricchire gli elementi di conoscenza, integrando i contenuti dell’articolo segnalato con ulteriori informazioni tratte dalla rassegna stampa che si può raccogliere sul caso:
dopo il matrimonio nel 1990, quando la donna aveva 36 anni, la coppia si è sottoposta, in Italia, a dieci tentativi di fecondazione assistita, tutti senza successo;
in seguito, sono state presentate due richieste di adozione nazionale e internazionale (nel 1999 e nel 2003), entrambe respinte; in tali occasioni, secondo alcuni media, la coppia non avrebbe raccolto l’invito a sottoporsi ad una psicoterapia;
pochi giorni dopo la nascita della piccola e su segnalazione del servizio sociale dell’ospedale dove è avvenuto il parto, la Procura minorile di Torino ha aperto un fascicolo e disposto accertamenti. Poco meno di un mese dopo (giugno 2010), anche a seguito della del presunto abbandono in auto della neonata, il TM dispone il suo allontanamento dalla famiglia di origine e l’affidamento ad altra famiglia in attesa di completare le indagini e gli approfondimenti per la decisione sull’eventuale adottabilità;
dopo la diffusione della notizia in merito alla sentenza di adottabilità, il Tm di Torino ha precisato che la decisione non è stata causata dall’età dei genitori, ma piuttosto da episodi di abbandono e dalla mancanza di presupposti per il recupero della funzione di genitori.
Questa precisazione, tuttavia, è contestata dai legali  della coppia, secondo i quali il richiamo alla condizione anagrafica invece è costantemente presente nella sentenza.
3. Esistono alcuni principi di riferimento e alcune precise norme di legge che orientano le decisioni che i Tribunali per i minori assumono in materia di potestà genitoriale.
In primo luogo, è la stessa Costituzione (art. 30) a prevedere l’ipotesi di una eventuale “incapacità” dei genitori nell’espletare il diritto/dovere di mantenere, istruire ed educare i figli, prevedendo che in questi casi lo stato e i suoi organi intervengano per garantire al minore il pieno sviluppo della sua personalità.
Conseguentemente, il codice civile, nell’ambito delle disposizioni sulle potestà genitoriali, prevede sia che il giudice decida la decadenza della potestà sui figli e il conseguente allontanamento nel caso che il genitore trascuri i propri doveri o abusi dei relativi poteri provocando grave pregiudizio ai figli (art. 330); sia che adotti provvedimenti (revocabili in qualsiasi momento) di limitazione della potestà e di allontanamento, quando la condotta non sia così grave come nell’ipotesi precedente ma tale da apparire comunque pregiudizievole al figlio (art. 333).
Si tratta, peraltro, di principi e disposizioni coerenti con i valori alla base della Convenzione sui diritti del fanciullo, adottata dall’Onu nel 1989, laddove si afferma tra l’altro che nelle decisioni relative ai minori di competenza delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del minore deve costituire una considerazione preminente.
Si tratta, come è ovvio, di principi e disposizioni generali che, per trovare applicazione adeguata nei singoli giudizi specifici dei tribunali, debbono correlarsi al concreto contesto di riferimento in termini di accertamento di fatti precisi e di solide valutazioni metodologicamente fondate.
Nella sentenza del Tm è possibile riconoscere tre diversi ordini di motivazioni:
accertamento di “fatti oggettivi”, rilevanti penalmente e/o in sede di giudizio minorile: per esempio, l’episodio del presunto abbandono della neonata in auto, segnalato da alcuni vicini;
valutazioni di personalità, necessarie a formulare ipotesi sulla potenziale adeguatezza genitoriale dei due coniugi: a questo proposito, alcuni media riportano che la perizia psichiatrica avrebbe evidenziato che il padre presenta “scompensi in senso dissociativo e psicotico” e che la madre “non stabilisce con la figlia contatto emotivo  … mostrando una ferita narcisistica intollerabile”;
valutazioni specifiche sul ricorso alla procreazione assistita; in altri termini, la scelta di ricorrere ad età avanzata a tale trattamento viene assunta come indicativa di un atteggiamento non adeguato verso la genitorialità: infatti, nella sentenza si rileva “ … come il dato della differenza di età per i genitori non assume alcuna rilevanza, essendo secondario rispetto all’appagamento del bisogno narcisistico di avere un bambino”.
Il complesso di tali considerazioni conduce, pertanto, alla decisione sulla sussistenza di una condizione di abbandono  “nell’accezione che configura non già carenze di tipo materiale, bensì mancanza delle caratteristiche minime indispensabili per assicurare alla bambina una crescita psicofisica adeguata, giudizio peraltro ancorato a dati incontrovertibili e tendenzialmente immodificabili, attesa la già evidenziata carente consapevolezza dei propri limiti”.
Si tratta di ordini di motivazioni che vanno tenuti distinti, per evitare il rischio di ridurre la complessità delle questioni in gioco, ma che al tempo stesso nel percorso argomentativo si presentano fortemente intrecciate e tali da richiamarsi e rafforzarsi reciprocamente.
4. A questo proposito, è importante evidenziare una questione che riguarda il ruolo svolto dei mass media rispetto a questo tipo di vicende.
In altri termini,  quando si trasferiscono situazioni e argomentazioni di tale complessità nel discorso comunicativo dei media, necessariamente semplificato, si verifica spesso una sorta di fenomeno di “lost in traslation”, nel senso che, come per l’azione di un setaccio, vengono lasciati passare e posti in rilievo solo alcuni degli elementi in gioco, che finiscono per risultare scollegati dalla rappresentazione complessiva dei fatti.
Nel caso che stiamo considerando, nel racconto dei mezzi di informazione l’enfasi maggiore è stata certamente attribuita alla condizione anagrafica dei neo-genitori.
Tutto questo, tuttavia, finisce per attivare un dibattito fuorviato (privato di una conoscenza complessiva del problema) e purtroppo anche fuorviante (poiché mette in rilievo aspetti che non sono centrali o decisivi. Non a caso, infatti, il dibattito finisce per ruotare attorno a due tipi di domande: “E’ giusto togliere la figlia a due genitori solo perché sono troppo anziani?”, oppure “E’ accettabile il ricorso alla procreazione assistita anche in età avanzata?”.
5. E’ opportuno, invece, di accennare ad alcune questioni che meritano un’attenzione maggiore di quella che possiamo riservare in questa occasione.
Un primo ambito di considerazioni riguarda più direttamente la professione dello psicologo, coinvolto nei procedimenti di giustizia minorile come perito o come giudice esperto, in considerazione soprattutto di tutta una serie di critiche che tendono a contrapporre la solida concretezza dei fatti da accertare alla presunta vaghezza delle valutazione etiche o psicologiche.
In realtà, come ho cercato di evidenziare su questo sito in una precedente occasione, questa distinzione tra motivi “oggettivi” e “soggettivi” si basa su una consapevolezza imprecisa della natura dell’atto valutativo, quasi che nella valutazione psicologica di situazioni di incapacità genitoriale ci trovassimo di fronte soltanto a opinioni di operatori psico-sociali più o meno fondate, mentre in altri casi (per esempio, laddove si riscontrano maltrattamenti o abusi sessuali) la registrazione di un “fatto” oggettivamente avvenuto giustifica l’assunzione di decisioni che intervengono sulla potestà genitoriale. In realtà, la valutazione non coincide mai con la semplice registrazione o misurazione dei fatti, poiché a questa registrazione o misurazione si aggiunge un’attribuzione di “valore”, nel senso di riferire tali risultanze ad un sistema di parametri tecnico-professionali, storici, giuridici e persino etici che danno senso al fenomeno indagato e aiutano a prendere le decisioni adeguate. D’altra parte, è altrettanto necessario che ogni formulazione diagnostica sia correlata ad una equilibrata e precisa individuazione dei “fatti” rilevanti nel contesto, per evitare il rischio di risultare un’applicazione astratta  -e, in ultima istanza, moralistica – di categorie generali.
Un secondo ambito di considerazioni riguardano le questioni della procreazione assistita.
Innanzitutto, il ricorso a strutture estere per realizzare un progetto di maternità assistita eterologa, anche per le complicazioni sopravvenute nel caso in questione, evidenzia la presenza di forti disarmonie tra le normative europee in materia e richiama l’esigenza di giungere ad una maggiore armonizzazione.
Inoltre, è sempre più opportuno arricchire la nostra comprensione dei processi psicologici, culturali ed etici coinvolti nel ricorso alle diverse forme di procreazione assistita, anche per i riflessi che tali esperienze in ambiti collaterali, come ad esempio nella valutazione di coppie che si propongono per l’adozione dopo tentativi di procreazione assistita.
Infine, la vicenda dei coniugi di Montebello e il dibattito che si è sviluppato a seguito della sentenza di adottabilità della loro neonata chiama in causa considerazioni più generali sui fondamenti etici della paternità e della maternità e quindi sulla fonte degli speciali diritti/doveri attribuiti ai genitori.
Le risposte diversificate che diamo a domande di questo genere mettono in luce l’esistenza di concezioni diverse e non sempre tra loro conciliabili della paternità e della maternità (1). In estrema sintesi e a rischio di risultare riduttivo, sempre meno ovvia risulta la tesi secondo cui il fondamento etico della genitorialità risiede nel legame biologico con i figli e nel fatto che questi rappresentano per il genitore un’estensione di sé; al contrario maggiore attenzione riserviamo all’idea che gli speciali doveri genitoriali derivino dal fatto che i genitori (attraverso la procreazione naturale o tecnologicamente assistita, ovvero mediante l’adozione) si trovano nella posizione migliore rispetto ad altri per evitare al figlio eccessivi dolori o per promuovere le più adeguate condizioni di vita.  Su questi ultimi speciali doveri verrebbero dunque a trovare fondamento gli speciali diritti e poteri dei genitori.
D’altra parte, la legislazione vigente nel nostro Paese, in linea con le Dichiarazioni internazionali sui diritti dell’infanzia, sembra propendere verso una concezione del potere genitoriale come strumento per assicurare la realizzazione dei diritti dei minori e su tale fondamento trovano giustificazione anche quelle misure giudiziarie e prassi operative che, in casi particolarissimi e con tutto il necessario equilibrio, tale potere limitano o fanno decadere.

Nota:
a questo proposito, si può confrontare il saggio di M. Mori “Un nuovo problema per la famiglia: la fecondazione artificiale eterologa è una forma di adozione o un’estensione delle capacità riproduttive dell’uomo”  nel volume Il bambino bionico di O. Polleggioni – M. Russo, 1989, La Nuova Italia Editrice.

 

Fonte: Osservatorio di Psicologia nei Media

La geografia del limite

SEGNALAZIONE

Carissimi colleghi,

ho trovato in internet una interrogazione dell’Onorevole Scilipoti, su sollecitazione di alcune associazioni di tutela dei consumatori, che punta il dito contro una organizzazione che promuove corsi di memoria, ma che in realtà pare fare tutt’altro. Secondo quanto scritto nell’interrogazione, i metodi su cui si basano gli organizzatori di tali corsi sono basati sulla PNL. Ma la cosa che più mi stupisce è leggere che “nessuno dei membri di questa società è laureato in psicologia, pedagogia, scienze della formazione e medicina (psichiatria), e quindi abuserebbe della professione”.

Ho trovato poi, sempre in internet, un filmato promozionale della stessa società e sono rimasta profondamente colpita da quanto ho visto.

Mi chiedo a questo punto come sia possibile tutelare sia noi psicologi professionisti abilitati ma soprattutto l’utenza dall’uso improprio di tecniche psicologiche da parte di persone non formate ad utilizzarle?

Lettera Firmata

LINK ORIGINALE

http://banchedati.camera.it/sindacatoispettivo_16/showXhtml.Asp?idAtto=27280&stile=6& highLight=1

ALTRI LINK COLLEGATI

 

 

COMMENTO REDAZIONALE A CURA DELLA DR.SSA LORITA TINELLI

“Certo, non tutti gli specialisti di medicine parallele (o dolci) sono reclutatori al servizio delle sette, ma bisogna ammettere che la battaglia quotidiana che conducono contro la razionalità contribuisce ad allargare la breccia nel muro di dubbio che separa l’uomo sofferente dal credulone estatico, credente devoto nella rivelazione di guarigione che gli viene propinata”.

Jean-Marie Abrgrall – I ciarlatani della salute – Editori Riuniti.

Nel corso degli ultimi anni diverse associazioni, che promuovono la tutela dei diritti e della salute degli individui, hanno ricevuto un numero sempre più crescente di richieste di aiuto da parte di chi era rimasto danneggiato dopo aver sperimentato alcuni percorsi  di carattere psicologico.

L’enorme numero di utenti scontenti, dimostrato anche dai diversi forum tematici di discussione che ogni giorno si aprono nella rete informatica, evidenzia la presenza di un bisogno sempre più impellente dell’essere umano di percorrere corsi, seminari, incontri… finalizzati all’approfondimento di argomenti di carattere psicologico o al potenziamento di funzioni mentali (quali l’apprendimento, la memoria, la capacità attentiva) ma anche relazionali (per esempio la capacità seduttiva). Non solo. Dimostra anche che il mercato offre risposte sempre più variegate alla varie domande, che spesso prescindono da alcune norme di carattere legale.

Esistono per l’appunto corsi di seduzione, corsi che promettono di insegnare strategie per diventare milionari nel giro di pochi giorni, corsi che promettono percorsi che aiutano il raggiungimento di una maggiore consapevolezza e così via.

Come ha sottolineato l’Onorevole Scilipoti, primo firmatario dell’interrogazione presentata ai Ministeri della Giustizia, dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, sollecitata dal deputato Antonio Borghesi nel marzo 2011,  la preoccupazione è che tali percorsi sembrerebbero proposti ed esercitati da operatori che non hanno alcuna formazione in merito ad argomenti di carattere psicologico né possiedono l’abilitazione all’utilizzo di tecniche desunte dalla psicologia.

Entrambi i politici citati, partendo proprio dal risultato delle esperienze umane a loro riferite, affermano:  “In Italia vengono attivati corsi di memoria, lettura veloce e crescita personale, basati sulla programmazione neuro linguistica (PNL); si tratta di una tecnica psicologica, la cui valenza scientifica è ancora da assodare, che teorizza la possibilità di influire sugli schemi comportamentali di soggetti attraverso la manipolazione di processi neurologici messi in atto tramite l’uso del linguaggio (…)”.

La medesima preoccupazione è presentata in un’altra interrogazione del luglio 2010 dall’Onorevole Massimo Donadi il quale afferma: “Spesso tali personaggi non hanno nemmeno i titoli accademici atti all’esercizio di qualsiasi professione inerente la loro truffa; per convincere le vittime adotterebbero suggestioni di massa, ma ancora peggio la tecnica del PNL (programmazione neuro linguistica) …”.

Il  criminologo  francese Jean-Marie Abgrall afferma che talvolta tali operatori (definiti dallo stesso autore ‘ciarlatani della salute’) rischiano, con il loro operare, di distogliere la persona alla ricerca dall’unico cammino che potrebbe portarla al raggiungimento dei suoi equilibri o della sua ‘guarigione’.

Spesso i corsi proposti da operatori non formati né abilitati alla professione di psicologo, attingono a teorie ormai desuete della psicologia, che utilizzano un approccio ‘intuitivo’ fondato sul concetto che il corso proposto può fornire una conoscenza della causa dei problemi o dei bisogni dei propri iscritti.

Il fine ultimo non diventa più la crescita della persona, così come promosso in prima istanza, ma il suo assoggettamento. Difatti l’utente finisce per entrare in un vortice di corsi di primo, secondo, terzo, quarto … livello, quasi dovesse aprire una serie di scatole cinesi per acquisire particolari conoscenze, ai quali non riesce a sottrarsi, con grande aggravio in termini economici e spesse volte di danni alla salute psicofisica.

Certamente, come afferma Abgrall, non è il caso di fare di tutta l’erba un fascio. Ma è bene offrire al fruitore di ‘servizi psicologici’ tutte le informazioni necessarie per una scelta più oculata  che vada incontro ai suoi bisogni reali.

Documenti e libri consultati

http://banchedati.camera.it/sindacatoispettivo_16/showXhtml.Asp?idAtto=27280&stile=6& highLight=1

http://www.gris-imola.it/audio_video/Interrogazione%202010.pdf

http://www.gris-imola.it/audio_video/interrogazione%20Licastro.pdf

Jean-Marie Abgrall, Mécanique des sectes (Parigi, Payot 1996)

Jean-Marie Abgrall, I ciarlatani della salute (Editori riuniti, 1999)

 

PARERE DEL DR. MAURO GRIMOLDI

Quello dei contorni, dei confini di ogni cosa è sempre un tema ricco di fascino. L’Ulisse dantesco esorta i suoi compagni, giunti alle Colonne d’Ercole, finis terrae delle antiche carte geografiche a superare quel limite: “O frati, che per cento milia perigli siete giunti a l’Occidente, in questa tanto picciola vigilia dei nostri giorni, del domani non vogliate negare l’esperienza”. Oltre il quale, giova rammentare, appena intravista la montagna del purgatorio, troveranno la morte.

Nel caso della Psicologia il territorio è vasto, e la questione della geografia del limite non è indifferente alla funzione stessa di quel limite; tuttavia non meno pericoloso è il superamento dei confini. Il che non è affatto estraneo rispetto al tema dei corsi, dei venditori di illusioni roboanti scandite dagli applausi della setta che cancella l’arbitrio dell’individuo, degli artigiani delle passeggiate sui carboni ardenti e dell’empowerment dei dirigenti high-potential basato su tecniche, su prassi che coinvolgono il sistema psiche-soma in modi spesso drammatici e potentemente evocativi.

Il fatto è che la Psicologia nasce lontanissima da questo confine, allora imprevedibile.

Nasce, da un lato, dal magma primordiale della filosofia e della medicina, in accademia. Nelle Università del XIX secolo si cominciano ad effettuare misurazioni dei comportamenti e delle percezioni, a studiare il condizionamento. È il tempo di Wundt e di Skinner. Pochi anni più tardi il più coraggioso e geniale neurologo della storia inaugura una prassi che chiamerà psicoanalisi, prima o insieme ad una teoria dell’inconscio, e da lì inizia un dispositivo di cura non già del corpo, ma della mente. L’invenzione dell’inconscio è cioè coeva a quella di una terapia della psiche, di una clinica come pratica che, come efficacemente rilevava Valeria La Via, ha la stessa radice etimologica del clinamen di Lucrezio, e che qui indica un soggetto-paziente piegato, sdraiato.

Da questa posizione inclinata, sdraiata del paziente si individua una differenza di ruolo, di status e di potere essenziale ai fini della percezione sociale della psico-terapia. Una differenza di status e di distribuzione del potere, quella tra terapeuta e paziente, evidentemente non priva di qualche rischio. Anche se non così drammatica come nel caso del rapporto con il medico, rapporto in cui il corpo del paziente è totalmente affidato all’epistème, alla scienza e coscienza di un Altro, tuttavia già il ricordo degli esperimenti ipnotici di Mesmer e delle tinozze ipnotiche in cui galleggiavano i pazienti, non poteva non condizionare da subito la percezione della terapia come una prassi da tenere sotto attenta osservazione. La questione dell’asimmetria dei poteri avrebbe avuto buoni motivi di essere affrontata, non fosse stato che gli Psicologi si relegano da soli uno spazio preferenziale nei luoghi di cura della follia, nella istituzioni totali in cui rinchiudere era funzionale all’oblio sociale, a dimenticare l’esistenza della follia. Propongo l’esistenza di un legame consequenziale tra la legge 180 del 1978 e una seconda legge, la 56 del 1989 che, solo nove anni dopo stabilisce delle regole nelle professioni di cura della psiche umana. La rinnovata visibilità degli Psicologi e l’apertura degli ospedali psichiatrici, che ha “fatto uscire”, insieme a molti psicotici quasi altrettanti psicologi dalle mura contenitive degli ospedali psichiatrici ha prodotto un’esigenza sociale, non solo corporativa, l’esigenza di una legge, di una norma, di un contenitore.

Facciamo un balzo repentino in avanti. Lo scorso anno, nel 2010 due Carabinieri del comando dei NAS si presentano ad un Ordine degli Psicologi di una piccola regione italiana. Il quesito che pongono è preciso: “l’ipnosi è un atto che possono fare solo gli Psicologi?”. La domanda non aveva – e non ha – una risposta così certa e  univoca come i militari dell’Arma credevano. Già, perché proprio l’ipnosi, che ha accompagnato la storia della Psicologia fin dai suoi albori, mette in primo piano proprio la dimensione del potere, e, con essa, del pericolo che potenzialmente corre il paziente, se mal-trattato. L’ipnosi, esige, nell’immaginario collettivo, delle tutele. Mica possono farla tutti, sembrano dire i Carabinieri nel nostro esempio. È lo stato di debolezza, di totale affidamento di un paziente non nel pieno possesso delle sue capacità di intendere e, soprattutto di volere, a sconcertare.

Gli Psicologi sono i peggiori difensori di sé stessi e dei loro pazienti, in questi casi. Perché troppo spesso hanno la sensazione che la legge sia stata fatta a proprio beneficio. La potenzialità, l’illusione corporativa della legge li fa sentire responsabili, e forse perfino colpevoli. Non è così e non di rado il mondo sociale si aspetta una tutela più ferma e precisa della prassi psicologica e psicoterapeutica, ovvero di una prassi che è orientata al sociale e che il cliente-paziente vuole sia attentamente sorvegliata e tutelata. La legge 56 che ha strappato la Psicologia dai territori dell’approssimazione e delle competenze innate e spontanee, richiedendo un percorso preciso e normato dall’art. 33 della Costituzione, nasce per difendere gli utenti, i cittadini, e, solo incidentalmente, gli Psicologi.

Il movimento compiuto dalla Psicologia e dalla Psicoterapia è andato, in poco più di un secolo, in una direzione precisa. Oggi, dall’odiata ma precisa definizione di “medico dei matti” ha un ruolo ampio e diverso, quello di “professionista dalla salute psichica”. La “cura dei sani” è più adatta ai tempi, più breve, meno faticosa, e dà, complessivamente, migliori e più sicuri risultati. Così lo Psicologo oggi, chiusi i manicomi e spesso anche gli studi degli psicanalisti reclama sovente un posto nella scuola e in azienda, dove fa consulenze brevi ma anche orientamento e selezione del personale.

Questa smart-care, una vera clinica della salute psichica, potrà dare nel futuro ampi frutti. Al tempo stesso però ha reso la Psicologia sempre più una questione di interesse generalizzato. Sul piano tecnico ha prodotto o rilanciato esigenze diverse. Dalla cura della nevrosi al superamento dei propri limiti e al potenziamento delle risorse lavorative, personali, sociali. Nascono tecniche strategiche e paradossali, programmazione neurolinguistica, ipnosi. Mai come in questi casi si spingono a livelli estremi i meccanismi suggestivi e manipolativi, che il paziente-utente di un atto comunque etimologicamente clinico, subisce. E mai come in questi casi l’esigenza di tutela della pubblica fede, ovvero della fiducia del cittadino che si rivolge ad un professionista si fa imprescindibile. Sarebbe un grave errore se si usasse la novità degli strumenti per reclamarne una verginità epistemologica; ciò distruggerebbe in brevissimo tempo la fiducia dei cittadini, che non esitano di fronte a queste realtà, aspettandosi una tutela che può essere fornita solo da una ferra iscrizione delle nuove tecniche nell’orizzonte già sufficientemente ampio descritto dalle norme e dalle leggi.

 

Fonte: Osservatorio di Psicologia nei Media

Psicologi o Abusologi?

SEGNALAZIONE

Carissimi colleghi,

mi è capitato di leggere stamattina il seguente articolo che si presenta come interrogazione parlamentare presentata contro  psicologi e psichiatri che si occupano nei tribunali di valutazione del danno di presunte vittime di pedofili. Colui che ha presentato l’interrogazione sostiene che tali figure professionali non solo non siano competenti per tale valutazione, ma aggiunge che  non siano capaci di apportare dati oggettivi, come farebbe invece la criminologia, ma solo dati interpretativi e quindi fallaci.

 

LINK ORIGINALE

http://www.abusologi.com/69

COMMENTO REDAZIONALE A CURA DELLE DR.SSE LORITA TINELLI E SIMONA RUFFINI

La segnalazione ricevuta ci dà la possibilità di chiarire alcuni punti estremamente importanti (dato soprattutto il campo di applicazione che è quello dell’abuso al minore) relativi a quello che è (o dovrebbe essere) il ruolo dell’esperto psicologo chiamato come consulente o perito. Nell’interrogazione parlamentare segnalata infatti riscontriamo alcune inesattezze proprio relativamente al ruolo delle figure professionali coinvolte e al loro delicatissimo compito.

La prima di queste gravi inesattezze è rappresentata, nell’interrogazione citata, dall’espressione “sempre più fatti di recente cronaca giudiziaria dimostrano come Giudici e pubblici Ministeri fanno sempre più affidamento alle opinioni, perizie e conclusioni di psicologi e psichiatri con l’assunto che grazie alla loro conoscenza sia possibile determinare la colpevolezza o l’innocenza di una persona”. Ci preme infatti precisare che la possibile dimostrazione di colpevolezza è affidata esclusivamente alle prove scaturite dall’attività di investigazione giudiziaria, non certo alle perizie. Inoltre va fatta una sostanziale distinzione tra perizia psichiatrica e perizia psicologica. La perizia psichiatrica infatti viene richiesta allo psichiatra (naturalmente) ed è utilizzata per dimostrare ad esempio una eventuale infermità o seminfermità di mente piuttosto che la compatibilità col sistema carcerario. La perizia psicologica invece non esiste affatto (sull’adulto) essendo espressamente vietata dall’articolo 220 del nostro codice di procedura penale: “Salvo quanto previsto ai fini dell’esecuzione della pena o della misura di sicurezza, non sono ammesse perizie per stabilire l’abitualità o la professionalità nel reato, la tendenza a delinquere, il carattere e la personalità dell’imputato e in genere le qualità psichiche indipendenti da cause patologiche[1]”.

La perizia psicologica invocata nell’interrogazione dunque non può che essere quella richiesta nei casi di presunto abuso non per dimostrare la colpevolezza di chicchessia (non esiste un test di alcun tipo che potrebbe farlo) ma solo e soltanto per la valutazione dell’attendibilità del minore che racconta i fatti.

Questo punto va chiarito con forza poiché altrimenti si diffonderebbe una pericolosa credenza in qualche tipo di potere magico affidato agli psicologi che è ciò che trapela dalle giuste preoccupazioni espresse nell’interrogazione.

L’altra grave inesattezza riscontrata nell’interrogazione è rappresentata dalla seguente frase: “lo stesso sistema, cioè l’uso di perizie psicologiche e psichiatriche usate a quel che consta all’interpellante come uniche prove…”.  Pur accogliendo con molto interesse qualunque critica mossa nell’esclusivo interesse dei minori non possiamo trascurare gli errori sostanziali contenuti in questa interrogazione.  Secondo l’articolo 187 del nostro codice di procedura penale (che chi si occupa di psicologia giuridica e chi critica lo psicologo giuridico deve conoscere), la prova è l’insieme dei fatti che: “si riferiscono all’imputazione, alla punibilità e alla determinazione della pena o della misura di sicurezza [2]”. Le prove soprattutto si formano in dibattimento. Questo vuol dire nella pratica che tutto quanto raccolto nella fase di indagini deve essere “validato” in aula. La perizia (o sarebbe meglio definirla consulenza tecnica per non creare confusione con il lavoro dello psichiatra) è una cosa ancora a parte, non solo perché il giudice potrebbe teoricamente non tenerne conto (seppure nella pratica i consulenti vengono interpellati proprio per aiutare il giudice nel suo libero convincimento) ma soprattutto perché la consulenza non è una prova! Vero è senza dubbio che a volte la notorietà mediatica dei consulenti nominati dilaga a discapito della controparte, ma certamente la consulenza è un aiuto per il giudice, non certamente una prova della quale egli debba tener conto.

L’altro punto saliente dell’interrogazione riguarda la professionalità degli esperti chiamati in causa. Anche qui riscontriamo alcune generalizzazioni che nuocciono al discorso.  La frase in questione è la seguente: “mentre in Italia è chiaro a tutti che per opere d’ingegneria occorre l’ingegnere, non lo è, invece, per la criminologia; posto che ad occuparsi di crimini non è il criminologo clinico…ma lo psicologo, lo psichiatra, l’assistente sociale, eccetera”. Purtroppo a causa della sovraesposizione a telefilm di ogni sorta o a sedicenti criminologi che impazzano anche nel nostro paese,  occorre anche qui fare una chiara e netta distinzione tra le figure professionali chiamate in causa.  Lo psicologo non si occupa di crimini, si occupa di psicologia, lo psichiatra non si occupa di crimini ma di medicina, il sociologo potrebbe occuparsi di crimini nel caso in cui effettuasse un’analisi appunto sociologica del fenomeno ma non ci risulta che ad un sociologo venga affidata una consulenza tecnica attraverso la quale dimostrare l’attendibilità di un minore. Il criminologo di cosa si occupa? Ecco, forse questo è il nocciolo della questione. Su questo accogliamo in pieno la perplessità espressa nell’interrogazione, non certo riferita allo psicologo serio, esperto, preparato, ma verso tutte quelle figure ibride che hanno specializzazioni inesistenti o inutili. Questo perchè un criminologo (qualunque cosa voglia dire) non entra in tribunale a verificare l’attendibilità della testimonianza di un bambino se non è uno psicologo serio, preparato, formato. Dunque semmai l’attenzione andrebbe posta alle competenze dello psicologo specificamente formato in questo campo e in collaborazione con lo psichiatra, uniche figure deontologicamente e professionalmente preposte.  A tale proposito i suddetti hanno come guida delle linee emanate dai propri ordini di riferimento in materia, alle quali si appellano e che li indirizzano proprio nel delicatissimo campo dell’abuso al minore.  Più che invocare il criminologo (poiché a tutt’oggi tale figura non esiste nemmeno professionalmente) sarebbe meglio (per il minore stesso) verificare e rafforzare le competenze degli psicologi che già fanno, nella maggior parte dei casi egregiamente, tale lavoro. Perché nei casi di presunto abuso ai minori il consulente non si occupa del criminale o del crimine, ma della vittima. E lo psicologo (se preparato), così come lo psichiatra, sono sicuramente più che adeguati.

 

PARERE A CURA DEL PROF. SAVERIO ABRUZZESE

Premessa: tutte le indagini epidemiologiche hanno accertato che sul tema degli abusi sessuali c’è un’impressionante diffusione del fenomeno, una disarmante scarsità di denunce ed una sconfortante esiguità delle condanne.

Davanti ad un fenomeno così sommerso dobbiamo porci alcune inquietanti domande: di fronte alla necessità di alzare il tiro contro la violenza sui minori è più accettabile correre il rischio che un adulto innocente venga condannato o che un minore vittima non venga creduto? È una domanda scomoda, anche perché fa riferimento ad una logica guerrafondaia in cui si usa fare previsioni sulle vittime di un conflitto. Ma questo clima si avverte. Inutile soffermarci sul fatto che un innocente non dovrebbe essere condannato e che un minore non dovrebbe essere ritenuto a priori attendibile, ma la verità è che le armi a disposizione dell’imputato sono molte di più di quelle di una vittima bambino. È una lotta impari e noi abbiamo il dovere – o per lo meno dovremmo sentirlo – di aiutare e sostenere il più debole. Questo non significa perdere la neutralità o schierarsi. Ma sappiamo benissimo come le verità processuali siano più difficilmente dimostrabili delle verità cliniche. E vorrei anche uscire al più presto da questa logica militaresca, perché non è edificante parlare di una guerra di adulti contro bambini. Gli avvocati degli abusanti per contratto devono difendere i loro clienti, ma ci sarà un modo per farlo senza ritenere i bambini irrimediabilmente inattendibili, fantasiosi, bugiardi, etc.

Se continuiamo ancora a vivere in questo clima di contrapposizione fra operatori del diritto schierati dalla parte degli adulti e operatori psicosociali schierati dalla parte dei bambini non cresceremo. Né noi, né loro.

Probabilmente non abbiamo ancora metabolizzato la violenza e abbiamo qualche difficoltà a fondare la cultura dell’antiviolenza. Abbiamo bisogno di continuare a parlarne e confrontarci, per evitare di inciampare nella pietra dello scandalo.

Una certa cautela è necessaria, non lo metto in dubbio, in considerazione del fatto che c’è un aumento di false denunce e di strumentalizzazioni della violenza sessuale nei procedimenti di separazione, ma la cautela non deve trasformarsi in omertà.

Abbiamo acquisito che gli indicatori dell’abuso sono aspecifici, ma la contemporanea comparsa di più fattori dovrebbe insospettire: la distrazione a scuola, le difficoltà di apprendimento, l’isolamento, una condotta erotizzata precoce, segni fisici inequivocabili, comportamenti bizzarri, compiti in classe o letterine alle insegnanti, etc.

L’Unione delle Camere Penali, invocando i principi del giusto processo, insiste sulla necessità della videoregistrazione integrale delle dichiarazioni del minore fin dalle fasi iniziali dell’indagine e sulla opportunità dell’esame e controesame del minore, comunque tutelandolo, ma assicurando anche i diritti dell’imputato. La verità è che non si tutela un minore costringendolo a ripetere la stessa storia, a rivivere il trauma subito. Una bambina costretta a ripetere sempre la stessa storia può iniziare a dubitare di non essere creduta e quindi rifiutarsi di parlare. Gli avvocati non aspettano altro. Ma questa non è una ritrattazione. È un’ulteriore forma di violenza sulla vittima.

La quale deve anche subire i tempi del processo, in cui si garantiscono i diritti dell’imputato, ma non alla stesso modo quelli della vittima. Più volte mi è capitato di attendere che il procedimento penale a carico dell’abusante si definisse per poter ascoltare il minore in merito ad interventi civili di protezione e tutela.

L’AIMMF (Associazione Italiana dei Magistrati per i Minorenni e per la Famiglia), in un documento [3] datato 8/3/2008, ha riaffermato decisamente che “gli interventi di cura, psicologici ed educativi, non possono essere né rinviati né subordinati in relazione ai tempi del processo penale, ad esigenze di segretezza e alle garanzie dell’indagato o imputato già previste dalla legge; curare un bambino che sta male non può mai ledere diritti altrui”.

In merito all’audizione protetta del minore, lo stesso documento afferma che “l’ascolto del minore vittima in ogni sede, compresa quella giudiziaria, non può che essere condotto con modalità empatiche adeguate alle sue modalità espressive e di verbalizzazione; egli va ascoltato tenendo conto delle sue possibilità e capacità di racconto. Il documento fa anche riferimento alla necessità che il minore-vittima sia sempre seguito nei percorsi giudiziari civile e penale da un’unica figura di accompagnamento nella persona del curatore speciale “che non lo lasci solo; lo informi, lo conduca e accompagni al processo, gli nomini se del caso un difensore specializzato” ed infine auspica che i magistrati che si occupano di questa materia siano adeguatamente preparati e formati.

In definitiva abbiamo da un lato alcuni professionisti seriamente interessati alla tutela del minore, decisamente impegnati nell’impedire alla vittima una vittimizzazione secondaria, che è quella degli ascolti ripetuti e della violenza della macchina giudiziaria; ci sono poi altri professionisti che utilizzano i loro saperi per mettere in dubbio la credibilità di una bambina abusata, spiegando ai magistrati che le risposte date ad un test proiettivo non costituiscono una prova, anche perché sono confutabili. In questa polemica fra specialisti delle scienze umane si inseriscono volentieri gli avvocati; per il momento ci sono i penalisti che hanno tutto l’interesse nell’invalidare le dichiarazioni di un minore vittima, ma è prevedibile che fra un po’ anche i curatori speciali faranno sentire la loro voce per schierarsi, presumibilmente, dalla parte del minore vittima e testimone.

Non vorrei correre il rischio di apparire fazioso. Mi sembra inevitabile che gli avvocati difendano il loro cliente, ma non si può dire che questa diritto alla difesa si fondi sull’interesse del minore. Il giusto processo non può trasformarsi in un’altra violenza sui minori.

E non trascuriamo – infine – un altro conflitto spesso presente sui nostri giornali: la destra chiede pene più severe, ronde cittadine, maggiore sicurezza, etc.; la sinistra chiede una maggiore attenzione all’educazione all’affettività, una maggiore prevenzione, la rieducazione del reo. Le richieste non sono incompatibili, al contrario “devono” diventare compatibili. La sicurezza dei cittadini e dei bambini in particolare, non può essere oggetto di polemiche. È impensabile che la destra risulti più attenta ai bisogni del cittadino, mentre le sinistra a quelli dei delinquenti. Non ha senso. Sono molto preoccupato che l’attività delle ronde per strada possano trasformarsi in giustizia privata. Sono stufo di questa abitudine, tutta italiana, di polarizzare il dibattito sui temi dell’antiviolenza.

Alcuni operatori psicosociali si impegnano nel dimostrare che un minore è inattendibile, altri prendono per oro colato tutto quello che esce dalla bocca di un bambino. Alcuni vorrebbero l’inasprimento delle pene e la giustizia fai da te, altri sostengono che solo con un trattamento sull’abusante si evitano i rischi della recidiva.

Perché non diciamo semplicemente che il bambino va ascoltato con molta attenzione, non dando per scontato che dica la verità, ma senza accanirci nel dimostrare in mala fede la sua inattendibilità. Una maggiore severità nel punire questi reati è condivisibile, ma evitando la giustizia privata ed i linciaggi, che per la verità, in questi ultimi tempi, diventano sempre più frequenti. L’antiviolenza è e deve essere soprattutto una prova di civiltà.

Non mi sembra il caso di litigare anche su questo. Non si può litigare sull’antiviolenza. È un controsenso.

Un discorso a parte è quello che riguarda i presunti abusi successivi alla separazione dei genitori. In questo caso la responsabilità del genitore affidatario che denuncia l’abuso è innegabile. Perché se il bambino non ha subito violenza sessuale dal genitore non affidatario allora è stato vittima di una violenza psicologica da parte del genitore affidatario. Delle due, una. Instillare in un bambino il dubbio che il padre abbia fatto violenza su di lui significa inevitabilmente comprometterne lo sviluppo affettivo.

Qual è il confine fra i dubbi di una madre e la sua mala fede? I sospetti su un padre che si occupa dell’igiene intima di una figlia sono tali da poter giustificare una denuncia? Sorge il dubbio che in una separazione conflittuale quei sospetti siano funzionali alla eliminazione della figura paterna dalla vita della figlia. Questa eliminazione si consuma sia nel caso che l’abuso ci sia  stato, sia nel caso che non ci sia stato, perché il rapporto di quel padre con la figlia è già inquinato dal sospetto materno.

La violenza sessuale sui minori è caratterizzata dal fatto che il bambino non ha gli strumenti cognitivi ed affettivi per percepire la violenza, almeno in un primo momento. La confusione dei linguaggi rende indecifrabile l’esperienza traumatica; ma nei casi di false denunce da parte di genitori separati è come se tutto fosse svelato prima del tempo, costringendo il bambino a riferire e a fare proprie cose che non avrebbe mai sospettato. “Come ti tocca papà?”, “Dove di tocca?”. Il tarlo del dubbio è instillato.

Sul versante opposto ci sono genitori che ritengono i figli troppo piccoli per capire. Di fronte alla violenza assistita spesso si adduce questo tipo di giustificazione: “Non pensavamo che capisse quello che stava succedendo, è troppo piccolo …”, “Chi avrebbe mai immaginato…”

Lo stesso pretesto viene utilizzato nei casi di corruzione di minorenne, quando il bambino assiste ad atti sessuali dei genitori; anche in questo caso il bambino è troppo piccolo per capire.

Insomma, ci sono casi in cui il bambino è troppo piccolo per capire, ed altri in cui è abbastanza grande non solo per capire, ma anche di riferire nel processo.

La capacità di un bambino di capire e riferire dipende dall’obiettivo che vuole raggiungere il genitore: screditare l’ex coniuge o coprirlo. Nel primo caso il bambino viene invitato a riferire, nel secondo a tacere. Nel primo caso a riferire quello che non è successo. Nel secondo a tacere quello che è successo.

Segnaliamo subito un problema: interesse della giustizia è scoprire la verità, l’interesse del minore consiste nel tutelarlo. Non sempre questi due interessi sono compatibili. Spesso accade che il prevalere dell’uno comprometta l’altro. Compito degli operatori dell’antiviolenza è quello di rendere questi due interessi il più possibile compatibili, se non addirittura sovrapponibili.

Un ascolto protetto condotto male può trasformarsi in un’incomprensibile violenza sul minore abusato, ma se fatto bene, ha un effetto catartico, aiuta il processo di svelamento, non costituisce un ulteriore trauma.

Il bambino nel processo è un argomento molto delicato e ricco di implicazioni metodologiche che vanno approfondite. Siamo tutti d’accordo sul fatto che le capacità empatiche di chi ascolta favorisca l’ascolto del minore, ma c’è il rischio che proprio questa empatia si traduca in una sorta di alleanza fra ascoltatore ed ascoltato, che induca quest’ultimo a compiacere il primo. C’è il rischio, insomma, che la capacità empatica si trasformi da risorsa in limite nella misura in cui invece di ottenere la verità suggerisce le risposte. Dietro questo dubbio si cela un’altra domanda inquietante: stiamo disquisendo sulla inattendibilità del bambino o dell’impreparazione di chi ascolta o peggio della sua mala fede? Utilizzare la capacità empatica per suggerire le risposte attiene alla inadeguatezza di chi ascolta, non all’inattendibilità del minore. E non dimentichiamo che convincere un bambino a riferire quello che non è gli è successo significa comunque fargli violenza perché il suo rapporto con il genitore accusato ingiustamente è definitivamente compromesso. Ma anche costringerlo a ritrattare una violenza subita costituisce un’ulteriore forma – la peggiore – di violenza sulla vittima.

Se sussiste il rischio che il bambino testimone compiaccia l’intervistatore empatico, significa che dobbiamo rinunciare all’empatia e scegliere una modalità d’ascolto più fredda e neutrale? Essere neutrale significa essere freddi? Perché la neutralità deve essere associata alla freddezza? Si può essere neutrali e caldi? O se si è caldi si suggeriscono le risposte?

Queste domande non mi piacciono, perché mettono al primo posto un presunto interesse della giustizia su quello del minore abusato. Mettere a proprio agio un bambino non può costituire un ostacolo al corso della giustizia, né tanto meno è ammissibile che un procedimento penale a carico di un abusante prenda il sopravvento sui provvedimenti cautelari in favore di un minore. Eppure mi è successo che per espletare una consulenza tecnica d’ufficio disposta dal Tribunale per i minorenni ho dovuto aspettare per più di un anno che si concludessero le indagini disposte dal PM sui presunti abusanti.

Ma torniamo al bambino testimone.

Fra domande suggestive e risposte indotte, falsi ricordi, assecondamenti e confabulazione la testimonianza del minore diventa uno dei temi più scottanti e affascinanti della psicologia giuridica.

Ricordiamo che la capacità “fisica e mentale” a testimoniare può costituire il quesito di una consulenza tecnica, mentre l’attendibilità dovrebbe essere una valutazione del magistrato.

Pertanto idoneità a testimoniare e attendibilità non rappresentano la stessa capacità. Essere in grado di riferire l’accaduto non significa che si riferisca la verità. Le categorie della competenza, della credibilità e dell’accuratezza del ricordo sono elementi che contribuiscono a stabilire il contenuto di un ricordo, ma come si può tenere così rigorosamente separati la verità processuale dal ricordo dell’evento traumatico? L’elemento processuale dal dato clinico? Un minore abusato avrà pure il diritto di rimuovere il trauma, ma questa non è ritrattazione. Rimozione o ritrattazione? Sarebbe un bel quesito, in cui il perito dovrebbe attribuire ad un processo psicologico un significato giuridico.

I bambini – comunque – sono più attendibili di quello che alcuni difensori vorrebbero far credere. Abbiamo detto che la valutazione dell’attendibilità non dovrebbe essere un accertamento tecnico. Ma c’è un modo per aggirare l’ostacolo: una consulenza sulla coerenza interna di quanto dichiarato dal minore è un modo molto elegante per far coincidere capacità a testimoniare, valutata dal perito ad attendibilità, che dovrebbe essere valutata dal magistrato.

Non è facile districarsi in questi concetti al confine fra il diritto e la psicologia, non lo è mai stato, ma dobbiamo avere il coraggio di ammettere che quello che il bambino rivela dipende sia dal gioco delle proiezioni del bambino in chi ascolta, ma anche di quest’ultimo nei confronti del bambino e del suo abusante. L’esperto costruisce insieme al bambino la verità processuale e pertanto è necessaria la sua totale buona fede. In questo senso va interpretata la sua neutralità: la capacità di non farsi condizionare dalle indagini svolte e dalle aspettative di magistrati e avvocati, ma di concentrarsi solo sul mondo del bambino.

Non è affatto facile, soprattutto quando la vittima è un disabile. Il bambino disabile più facilmente diventa vittima dell’abusante, ha quasi il doppio di probabilità di diventare vittima rispetto ai bambini senza disabilità. L’abusante sa scegliere le sue vittime. Ma questo rende ancora più complesso il problema processuale dell’attendibilità e della capacità a testimoniare. Un altro vantaggio per l’abusante.

Compito dell’operatore dell’antiviolenza pertanto è quello di facilitare la testimonianza delle vittime. In altri termini, il modo migliore per combattere la violenza è quella di rendere attendibili e capaci di testimoniare le vittime, sia i minori sia i disabili.

Non dobbiamo porci il problema se i minori siano o non siano attendibili e capaci di testimoniare, ma come renderli attendibili e capaci.

Non dobbiamo farci tentare dalla tentazione verificazionista, cioè di confermare l’ipotesi iniziale del presunto abuso, compiacendo il minore e facendo in modo che lo stesso minore compiaccia il suo intervistatore; ma dobbiamo stare attenti anche alla tentazione falsificazionista, mettendo in difficoltà il minore testimone, per mettere alla prova la sua capacità di testimoniare; anche questa  è un’ulteriore forma di violenza. Il minore non è un’ipotesi da falsificare per verificare la sua attendibilità. Dovremmo stare lontani dalla compiacenza del verificazionismo e dal sadismo del falsificazionismo. Mi viene il dubbio che il conflitto di fondo fra verità processuale ed interesse del minore è viziata dall’inveterata abitudine di confondere la verità processuale con la tutela dell’imputato. D’accordo sul garantismo, ma anche la tutela del minore va garantita. Non anche, soprattutto.

[1] http://www.altalex.com/index.php?idnot=36786

[2] http://www.altalex.com/index.php?idnot=36785

[3] Il documento è pubblicato in Minorigiustizia, n2/2008, pag. 333

 

Fonte: Osservatorio Psicologia nei Media

Grani di sale

Con prefazione della Dr.ssa Lorita Tinelli

 

Giulia viene a contatto con una setta e ne rimane dolorosamente coinvolta. In perenne lotta con se stessa, costantemente alla ricerca del ‘senso della vita’, Giulia si avvicina all’esoterismo con avidità, si lancia in avventure border line sena però mai lasciarsi travolgere dal fanatismo. Aiutata e al tempo stesso confusa dal suo fantastico mondo onirico, finisce per sperimentare esperienze fuori dall’ordinario. Le illusioni più grandi arrivano dalla Cialtronazza, anestetico contro il mondo, una maga malefica che rischierà di farle perdere fiducia nella sua personale ricerca. La storia precipita verso una conclusione inattesa dove ogni tassello andrà al posto giusto. E’ una storia ironicamente new age, senza la pretesa di insegnare niente a nessuno, ma è anche un giallo legato alla cronaca.”

Premio speciale 2009 al concorso nazionale Giallo d’Autore.

 

“Intesa e riuscita descrizione  del mondo che gravita intorno alle sette, il romanzo sviluppa il tema della ricerca della verità in seguito a una morte che desta scalpore, contemporaneamente accompagnandosi al percorso interiore del personaggio narratore. In questo romanzo dove  non c’è un assassino ma tanti colpevoli, la narrazione si snoda con ritmo teso, sempre sostenuta dall’originalità delle scelte linguistiche, sviluppando nel lettore un forte coinvolgimento.”

Maria Antonietta Spanu, Linguistica delle lingue moderne, Università di Perugia.

 

Autrice Rossana Pessione, giornalista, direttore responsabile dell’agenzia stampa Omnia Group.

Prima cronista del Secolo XIX, poi redattore del settimanale Gente, da vent’anni di divulgazione medico-scientifica collaborando con numerosi periodici del campo della salute e del benessere. Ha diretto il mensile Col mio Bimbo e ha collaborato alla rubrica radiofonica GR1 Le Scienze.

 

Casa Editrice: Nicola Calabria

Come tutelare la professione di psicologo dai ciarlatani?

ono una psicologa abilitata alla libera professione dal 1998. Nel 1999, assieme ad un collega e ad altri studiosi, ho fondato il CeSAP –
Centro Studi Abusi Psicologici, un’associazione no profit  tesa alla tutela delle vittime di abusi, allo studio degli indicatori dell’abuso e alla denuncia degli abusanti a vari livelli.
Nei primi anni del nostro lavoro, le richieste frequenti di aiuto al nostro centro, provenivano da familiari di adepti di sette pseudo-religiose. Ma mano a mano negli anni abbiamo assistito ad un differente andamento della
situazione del nostro Paese.
Le attuali denunce che ci giungono sono relative ad incontri con psicosett o pseudo improvvisatori psicologi.
E’ come se, nel collettivo l’idea di rivolgersi allo psicologo sia ormai accettata, ma non ha alla fine importanza che questi sia o meno qualificato, sia o meno formato alla professione, sia o meno iscritto all’albo. Ecco che accanto alla richiesta del singolo c’è un buon mercato in cui proliferano “esperti della salute mentale” di vario tipo, che a volte sostengono di essersi laureati in Università estere, solitamente non riconosciute dal Ministero della Pubblica Istruzione italiana (tipo La Jolla University, .), altre volte nel loro curriculum affermano di aver avuto una formazione psicologica, che per ovvie ragioni non descrivono nel dettaglio, altre volte
si auto-appellano con titoli scelti tra le professioni non ancora regolamentate, creando maggiore confusione nella gente (per esempio utilizzano l’appellativo di counselor, ipnoterapeuta, e così via) e con le quali di fatto esercitano la professione di psicologo. Altre volte avvalorano ancor di più la propria ‘competenza’ improvvisata, affiancandosi ad istituzioni di vario genere (ultimamente funziona molto bene il connubio con quelle ecclesiastiche, difatti è abitudine che questi ‘falsi professionisti’ scelgano qualche prelato di fiducia e qui iniziano a tessere le proprie tele, sentendosi maggiormente rafforzati e al sicuro).

Gente, insomma che in qualche modo, pur di operare indisturbata, finisce, con l’inquinare i reali requisiti di una professionalità ancora non molto conosciuta dai più, oltre che danneggiare profondamente l’utenza che a loro si rivolge.
Ancora oggi, difatti, mi meraviglia molto constatare che la gente comune (ma non solo), faccia fatica ad individuare i reali ambiti della professione dello psicologo. Abbiamo ascoltato spesse volte la frase ‘sono un po’ psicologo’ riferita alla presunzione di possedere una propria capacità di empatia e di ascolto. E così che gente non formata, non abilitata, ma ‘un po’ psicologa’, si avventura nel fare diagnosi mediante l’utilizzo di strumenti diagnostici, si permette di elaborare vere e proprie
interpretazioni psicologiche basate su proprie teorie personali circa il funzionamento mentale e relazionale, si permette di formare la gente al proprio pensiero, insinuandosi anche in aziende o associazioni, con la pretesa di posizionarsi unico conoscitore esperto di un tale settore e tacciando di invidia, di incapacità professionale, tutti coloro che sente come ‘disturbatori’ della propria scalata verso il successo.
Tali persone, operando nel settore della salute mentale, con persone già in difficoltà, al di fuori di ogni regola, solitamente prospettano una soluzione unica e facile a tutti i mali, cosa che attira molti perché non porta a mettersi in discussione e a responsabilizzarsi nel cammino risolutivo, ma che alla fine indirizza a stati di dipendenza nei confronti del proprio ‘salvatore’ e di rottura con la vita precedente (famiglia, amici, .) a seguito di nuovi valori assunti. Altro devastante effetto collaterale è che tale ‘terapia’ o ‘consulenza’ o ‘percorso di formazione’ ‘o lavoro’ iniziati non hanno assolutamente un termine, ma si evolvono negli
anni in un rapporto morboso, statico e distruttivo tra ‘falso psicologo’ e suo utente.
Negli anni, trovandoci di fronte a simili situazioni, abbiamo più volte segnalato ai vari Ordini di riferimento tali pesudo-psicologi. Gli  Ordini hanno accolto le nostre segnalazioni e inoltrato relativi esposti alle differenti Procure della Repubblica interessate.
Nel settembre 2006 un’ordinanza emessa dal Tribunale di Bari (a seguito della richiesta di un gruppo settario di far chiudere d’urgenza il nostro sito) ha espresso un giudizio di merito nei confronti della nostra
associazione, definendo la nostra attività ‘meritoria’ nella tutela delle vittime di ‘psicoterapie non autorizzate’.
Malgrado questo però, pur avendo inoltrato diverse denunce in diverse parti d’Italia, tutto sembrerebbe essere nel silenzio assoluto per decine di altri casi segnalati.
Nonostante difatti la presentazione di prove a sostegno di presunti reati di abuso della professione e quindi di esposti degli Ordini, non abbiamo notizie di nessun rinvio a giudizio.
Dov’è l’intoppo?
La lentezza della giustizia italiana?
La non conoscenza da parte dei giudici della reale differenza tra l’attività degli psicologi formati e abilitati e quella degli impostori?
E’ vero, come sostengono ‘gli impostori’ che i titolati possono anche non essere professionalmente ‘bravi’, (uno di questi santoni, contrariamente ai titoli ‘falsi’ che ostenta nel proprio curriculum, sostiene che lo stesso Freud non avesse i titoli per creare l’impero teorico a noi tramandato! Con questo vuole tentare di avvalorare la legittimità della sua ‘falsa’
professione) ma questo può bastare a far sentire libero chiunque di svolgere una professione di cui non ha competenze?
L’Ordine potrebbe fare di più per rendere maggiore chiarezza circa i requisiti dello Psicologo o anche interessandosi maggiormente ai percorsi attivati tramite gli esposti?
Sarebbe forse utile un’attività di monitoraggio preciso e costante di questi casi segnalati alle autorità (magari anche tramite una banca-dati), anche al fine di una puntuale conoscenza dell’andamento degli stessi.   Credo che la Giustizia in qualche modo vada anche supportata da una precisa e costruttiva attività politica dell’Ordine, volta alla tutela dell’identità variegata
della nostra professione.

http://altrapsicologia.com/come-tutelare-la-professione-di-psicologo-dai-ciarlatani/2007/03/

I ‘ciarlatani’ regolarmente iscritti all’Ordine.

In un precedente articolo ho posto il problema di coloro i quali non avendo titoli o formazione né iscrizione all’Albo degli Psicologi, cercano di farsi accreditare presso Istituzioni alternative per operare nel campo della psicologia.Questa volta vorrei proporre un altro problema, forse ancora più spinoso.
Esistono molti nostri colleghi (e qui mi riferisco anche alle molte segnalazioni che giungono alla nostra associazione CeSAP – www.cesap.net) che, pur essendo regolarmente iscritti all’Ordine ed anche laureati in Psicologia, si lasciamo ammaliare da una serie di strategie terapeutiche o filosofie, definite dalla stessa Margareth Singer (nota psicologa americana) ‘psicoterapie folli’ (per ulteriori informazioni vorrei citare il libro ‘Psicoterapie Folli’, della Singer e della Lalich, edito dalla casa editrice Erikcson e con prefazione del presidente dell’Ordine del Veneto).
Le ‘Terapie Folli si caratterizzano per i riferimenti teorici inesistenti o poco plausibili rispetto a teorie psicologiche, assente o insufficiente documentazione della loro utilità ed efficacia, spiegazione di molti o tutti i problemi psicologici sulla base di un’unica causa generale.
Nello specifico l’autrice cita tra le mille terapie “folli”: rebirthing e reparentinf, rebirthing inteegratico o Vivation, Pnl_Cf-Not-Emdr, terapia dell’entità e contatti medianici, terapia delle vite passate e future ed infine uso ed abuso di ipnosi, praticate da psicologi e psichiatri così come da persone non qualificate che appartengono a gruppi New Age, esoterici, del potenziale umano ed altri simili.
Queste terapie di rivelano estremamente nocive per la persona che le subisce e oltre non risolvere il disagio iniziale ne creano altri spesso peggiori. Ad esempio in tutti i casi che si sono rivolti al nostro centro hanno indotto rotture coniugali così come succede nei gruppi coercitivi (o sette).
Durante un’udienza civile alla quale ho partecipato come parte in causa (purtroppo il nostro centro riceve una infinità di denunce da ‘ciarlatani’ che cercano di tutelare il proprio lavoro ‘non legale’), un noto psichiatra, dipendente di una AUSL della mia regione, interrogato dal Giudice si è lasciato sfuggire di orientare la propria clientela a frequentare un discutibile gruppo del potenziale umano. Poi immediatamente ha ritrattato sostenendo che il suo consiglio era per amici e parenti. Naturalmente lo stesso psichiatra è parte attiva del gruppo cui indirizza ‘parenti ed amici’, che allo stato attuale è sotto indagine della magistratura per gravi reati.
Altresì segnalo una tendenza sempre più consolidata di scuole e centri di counseling regionali fondati da alcuni psicologi e psichiatri, ma anche ad appartenenti a gruppi New Age, esoterici, del potenziale umano ed altri simili a proporre corsi rivolti ad operatori del Servizio Sanitario e validi ai fini dell’attribuzione di Ecm che si basano sull’uso di tali terapie.
Nel dicembre del 2005 attraverso una nostra filiale del Friuli (oggi chiusa ufficialmente), il consigliere Regionale Roberto Asquini si è fatto portavoce delle preoccupazioni del nostro Centro con una interrogazione nel Consiglio Regionale (interpellanza n.410 del 29-12-2005).
L’art. 8  del nostro codice deontologico recita quanto segue ‘Lo psicologo contrasta l’esercizio abusivo della professione come definita dagli articoli 1 e 3 della Legge 18 febbraio 1989, n. 56, e segnala al Consiglio dell’ordine i casi di abusivismo o di usurpazione di titolo di cui si viene a conoscenza. Parimenti, utilizza il proprio titolo professionale esclusivamente per attività ad esso pertinenti, e non avalla con esso attività ingannevoli od abusive .’
Mi chiedo dunque, l’Ordine come interviene e quale sia il suo interesse concreto nella difesa della professione da parte di chi mescola in un sincretismo illecito tutto quello che sembra psicologia.Sono a conoscenza di casi di persone con gravi pendenze penali, ancora iscritte all’Ordine, malgrado tutto. Dobbiamo necessariamente arrivare ad una sentenza di un giudice oppure conoscendo i parametri del lavoro di uno psicologo l’Ordine può già decidere chi possa far parte o meno di un Albo professionalmente corretto?

http://altrapsicologia.com/i-ciarlatani-regolarmente-iscritti-allordine/2007/03/